Tutti dicono pilzwiderstandfähig!
Come i più avranno capito, non vi stiamo proponendo né uno scioglilingua né una estemporanea lezione di lingua tedesca: il teutonico pilzwiderstandfähig, da cui è poi nato l’acronimo PIWI, sta infatti a indicare i vitigni resistenti alle malattie fungine, di cui tanto si parla negli ultimi anni.
Difatti, se fino a qualche decennio fa si guardava ancora con sospetto a queste varietà e il loro impiego, in caso di altitudini estreme, climi freddi e svantaggiose condizioni ambientali, non era che un’extrema ratio, oggi, quando in viticoltura si parla di sostenibilità, riduzione delle emissioni di Co2 e risparmio economico, il riferimento ai PIWI non manca mai.
L’aver sfatato, negli ultimi tempi, alcuni falsi miti su queste varietà ha sicuramente aiutato; innanzitutto è bene specificare che PIWI e OGM non potrebbero essere più distanti: nel caso dei primi, infatti, non vi è alcuna manipolazione genetica e si tratta, piuttosto, di un processo di ibridazione. Si procede, per l’appunto, incrociando una varietà di Vitis vinifera e un’altra varietà, con origini nordameriche o asiatiche, resistente ai principali patogeni fungini; alla selezione dei donatori segue, in sostanza, un’impollinazione compiuta manualmente. Le odierne varietà resistenti sono, quindi, figlie di un incrocio tra un ibrido – ottenuto in tal modo – e varietà di Vitis vinifera autoctone e vantano indiscusse qualità agro-enologiche.
In primis, il loro impiego permette di ridurre, dal 60% all’80%, i trattamenti in vigna, con un vantaggio che, se è anche e indubbiamente economico, è principalmente ambientale: si può riscontrare, infatti, un miglioramento della qualità dell’aria, così come dell’acqua delle falde acquifere, cui si aggiungono emissioni di Co2 più basse, grazie a un più contenuto utilizzo dei mezzi agricoli.
Inoltre, alcuni agronomi, enologi e viticoltori, riconoscono ai PIWI un ruolo chiave nelle dinamiche evolutive; di fatto, la sofisticazione delle varietà resistenti, se da alcuni è ancora considerata un malus, potrebbe rivelarsi, invece, una ricchezza per l’ecosistema, andando a contrastarne la staticità.
In Italia, a partire dal 2013, si è iniziato a iscrivere parecchie varietà resistenti al Registro Nazionale delle Varietà e nel dicembre 2021 l’Unione Europea ha, anche, dato il via libera per l’inserimento dei PIWI nei disciplinari dei vini a Denominazione di Origine. Se, da un lato, questa decisione non è stata accolta positivamente dai detrattori, che considerano i PIWI una minaccia per la tradizione e la tipicità delle varietà autoctone, dall’altro la si ritiene decisiva, soprattutto per chi guarda a una viticoltura non invasiva, sostenibile e green.
Inoltre, si è ormai dimostrato che le differenze analitiche tra varietà classiche e resistenti non sono così significative da incidere negativamente sulle qualità organolettiche dei vini ottenuti a partire da queste ultime; non a caso, sono ormai moltissime le aziende che, vinificando i PIWI, producono vini eccellenti.
Se in Europa, tra i vitigni resistenti, spiccano cabernet blanc, johanniter, leger e julius, in Italia i produttori sembrano prediligere solaris, bronner e souvignier gris. L’”Idòl”, della Cooperativa Alpi dell’Adamello, per esempio, è un solaris in purezza; un iniziale tripudio di note floreali – su tutte quelle di gelsomino e gardenia – lascia poi spazio a sentori di pesca nettarina, muschio bianco e talco, cui si aggiungono, al sorso, sensualità, avvolgenza e una punta di acidità. Per i curiosi, i dubbiosi o, più semplicemente, per chi ancora non avesse avuto il piacere di provarlo, quando si parla di PIWI questo è uno di quei vini “assolutamente da non perdere”.
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