
The Eternal Sunshine of Albana
di Romagna

Parlare di cibo in Emilia Romagna (o comunque con emiliani / romagnoli) è un compito da non prendere mai troppo alla leggera; sono tortellini o cappelletti, quelli? Ravioli o tortelli? Ci va la mortadella nel ripieno?
Un’imprecisione soltanto potrebbe causare vere e proprie faide intorno alla tavola imbandita, o quantomeno accesi dibattiti. Ognuno ha la propria verità, solitamente dipinta come una nonna con le mani in pasta (letteralmente), e la brandisce come una spada sguainata.
Di solito assisto piuttosto affascinata a questi dibattiti, con lo sguardo tra il divertito e il curioso, affascinata dal duello tra queste nonne immaginarie -armate di mattarello- fino a che il mio pensiero inciampa e arriva al vino, ovviamente.
Così come l’Emilia chiama Lambrusco, per me la Romagna può chiamare solo Albana: insieme costituiscono la mia coppia di underdogs preferiti. Figli di una terra poco celebrata, sottovalutati o peggio ancora ignorati, bistrattati.
Ma cosa rende l’Albana così preziosa? Ho provato a creare una mappa mentale, una costellazione riconoscibile dei punti di luce di questo varietale, con il supporto di (due ricette di) Yotam Ottolenghi.
Un diamante grezzo
Cosa c’è da sapere su questo vitigno romagnolo? C’è un mondo, come dietro la maggior parte dei varietali esistenti in natura; enumeriamo qualche punto chiave per avere dei riferimenti:
- Di base parliamo di un tipo di uva che regala vini dotati di notevole struttura, elevata acidità e capacità zuccherina; nelle sue versioni più semplici ha un bouquet fruttato, essenziale. L’Albana predilige terreni collinari argillosi, di bassa fertilità, ben esposti. Viene allevata tipicamente tramite la Pergola Romagnola – sistema che consente una corretta circolazione dell’aria e l’ombreggiatura dei grappoli. Punto chiave per capire le peculiarità e il carattere di quest’uva: sono stati fatti tentativi di coltivarla al di fuori della Romagna: tutti sono risultati fallimentari.
- L’Albana di Romagna è stato il primo vino bianco in Italia – tra lo stupore di molti – ad essere insignito della DOCG, nel lontano 1987 (oggi Romagna Albana DOCG). Le polemiche furono molte, alcune in capo a caratteristiche produttive (come la resa per ettaro), altre legate al fatto che questo varietale non fosse molto conosciuto fuori dalla zona di produzione, altre ancora legate alla natura stessa dell’Albana, così poliedrica: in sintesi, veniva contestato il fatto che, da disciplinare produttivo, potessero essere prodotti così tanti vini diversi.
- Di fatto, da disciplinare di produzione l’Albana può essere prodotta in quattro tipologie diverse: secca, amabile, dolce, passita. In tutte le proprie forme, non perde mai la propria spina dorsale, la propria struttura, e una certa eleganza.
A memoria ricordo con estremo piacere il Tergeno di Fattoria Zerbina (una versione prodotta da vendemmia tardiva, con il 40% dell’uva attaccato da Botrytis Cinerea: il retrogusto dolciastro, mai stucchevole, è indelebile) l’Albana macerata in anfora Vitalba di Tre Monti (un vino bandiera dell’incredibile versatilità di questo vitigno: l’Albana si presta come pochi altri alla macerazione – data la scarsità di caratteristiche varietali – e alla lavorazione in anfora, per via della ricchezza in polifenoli, di zuccheri e l’acidità spiccata) e la versione di San Biagio Vecchio “Sabbiagialla” (realizzata con le uve leggermente surmature di 5 cloni di Albana raccolti separatamente e successivamente assemblati; una freschezza citrica, spiazzante, per un vino poderoso e incredibilmente complesso).

Tra i vari miti e leggende che circondano questo vino, si dice che sia “l’ultima vite a germogliare e la prima uva a maturare”: viene quasi da pensare che abbia una certa fretta di splendere.
Sì, perché l’Albana splende; qualunque forma assuma, macerato o meno, dolce o secco, in anfora come in acciaio: si ricorda sempre di illuminare il calice e il piatto che si trova ad affiancare, regalando brillanti suggestioni ad ogni sorso.
Un vino caleidoscopico

L’incontro con i piatti di Ottolenghi è sfaccettato, volutamente imprevedibile, a tratti azzardato: credo fortemente nell’abbinamento territoriale, quindi accostare l’Albana Monterè 2019 di Vigne dei Boschi a due piatti non romagnoli, in un primo momento, mi intimorisce.
Ammetto candidamente che sono due piatti “svuota-frigo”, ma l’intenzione di abbinare questo vino a due pietanze “non convenzionali”, o comunque non troppo occidentaleggianti, c’era a priori.
Come primo abbiamo cucinato una pasta con yogurt, piselli e feta; come secondo invece delle “bistecche” di cavolfiore (non me ne vogliano i carnivori puristi, so che la bistecca è di carne, ho utilizzato questo termine per rendere l’idea) al forno, con tahina, cipolle e capperi fritti.
Ciò che più di ogni altra cosa salta all’occhio, è che l’Albana riflette e rifrange tutti i lati del cibo che si trova di fronte, svelando angolature e prospettive altrimenti nascoste.

Nel confronto con la pasta non scompare, non si lascia abbattere dalla piccantezza dell’aglio, anzi, riesce ad esaltare la dolcezza dei piselli. Non affatica il palato, con l’aiuto di un’acidità pungente, rivelando sorso dopo sorso una complessità crescente.
Nel caso del secondo piatto, prende a braccetto la struttura del cavolfiore al forno, in una danza tra pari. Al naso ormai troviamo un vino diverso da quello incontrato subito dopo aver fatto volare il tappo: alle note di albicocca e agrumi canditi si sono affiancate note di camomilla e miele millefiori, riconducibili all’affinamento in barrique di 24 mesi.

Narra una (alquanto discutibile) leggenda che intorno al 400 d.C. l’imperatrice Galla Placidia, figlia di Teodosio I, ebbe l’occasione di bere dell’Albana in una coppa di terracotta. Dopo averla assaggiata, pare che abbia esclamato: “non così umilmente ti si dovrebbe bere, bensì bisognerebbe berti in oro”.
Nonostante la propria scarsissima attendibilità, si tratta di un’affermazione emblematica: non tanto perché l’Albana debba essere realmente bevuta in calici d’oro; quanto perché effettivamente rappresenta un vino da bere, in ogni sua forma, e prendere sul serio.
Ecco, questo sicuramente sì.
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