
Ristoranti impossibili e bottiglie introvabili
Atti di fede e illusioni nel mondo dell’enogastronomia
Trump posta un video in cui se la spassa con il suo bbf Musk sulle spiagge di una Gaza dai tratti californiani. Illusione generata dall’intelligenza artificiale ovviamente, ma in realtà per ingannare l’uomo non servono le moderne tecnologie, da sempre basta la stupidità, inconfondibilmente e da millenni solo umana®.
Nel 2017 il “The Shed at Dulwich” era considerato il ristorante più esclusivo di Londra. In pochi mesi dall’esordio, avvenuto in 18.149esima posizione, è riuscito a scalare la classifica di TripAdvisor fino ad ottenere le cinque scintillanti stelline e l’ambito titolo di ristorante #1 della capitale inglese. Una location segreta e tanto tanto hype. Un posto talmente esclusivo da rendere impossibile riuscire a riservare un tavolo. Impossibile sì, anche perché questo ristorante in realtà non è mai esistito.
Oobah Butler, un giovane evidentemente dotato del famigerato umorismo inglese, ha dimostrato al mondo intero che per avere successo un ristorante non ha bisogno delle stelle Michelin, ma di quelle di TripAdvisor e di un’astuta strategia di marketing.

Questo giornalista freelancer, per il modico prezzo di 10 sterline scriveva sfolgoranti recensioni, fasulle of course, in cui dispensava elogi a ristoranti in cui non era mai stato. Ed evidentemente era bravo a svolgere il suo lavoro, perché di solito i feedback dei clienti, quelli veri, miglioravano, positivamente influenzati. Da qui l’idea di condurre un esperimento sociale: cominciare a recensire un ristorante che non esiste.
“Un giorno, poi, mentre ero nel capanno (non scherzo) in cui vivo, ho avuto una rivelazione: a fronte dell’attuale cloaca di disinformazione e della tendenza della società a credere alle stronzate più grandi che si possano immaginare, un finto ristorante potrebbe davvero esistere? Magari è proprio il tipo di posto che potrebbe essere un successo?” – Oobah Butler
Sembra la battuta di un copione di una pièce del teatro dell’assurdo. Invece è la realtà. Qui non si aspetta Godot, ma la conferma di una prenotazione, che ovviamente non arriverà mai.
Del resto si sa, nulla si desidera più di ciò che non si può avere.
Il mondo del vino è strettamente affine a quello del food. E allora ci siamo chiesti: quali sono i vini UFO? Quelle bottiglie di cui tutti parlano, ma che nessuno o pochissimi eletti hanno bevuto.
Ecco quello che è uscito dalla nostra ricerca:
1. I fine wines: ovvero i vini più costosi al mondo. Pochi possono affermare di aver degustato un Domaine Romanée Conti. Ancora meno quelli che possono dire di averlo adeguatamente apprezzato. Molto spesso questi vini rappresentano uno status symbol. Se indossi un Patek Philippe, trascorri il Capodanno a St. Moritz e il Ferragosto in Sardegna, il tuo feed di Instagram per contratto deve contenere almeno dodici post in cui sciaboli in slowmotion Salon, Dom Perignon, Crystal e Armand de Brignac su uno yacht, sei di post di Cheval Blanc, Chateau Margaux e Lafite con l’hashtag #vinidamerenda e almeno uno in cui fai lo Spritz con il Giulio Rosè. Insomma se non siete nella strettissima cerchia degli amici di Briatore e Belen, difficilmente avrete grande esperienza di questi vini, eppure chi di voi si asterrebbe dallo stilare un decalogo dei pregi di questi vini? I sogni proibiti dell’uomo comune.
2. I vini unicorn: piccolissime produzioni per pochissimi iniziati. Questi vini sono prerogativa di radical chic che ostentano la libertà dai social e che tra un manifesto anticonsumistico, antipropaganda e antiqualcosa bevono solo vini eclettici per intenditori, naturalmente dai prezzi proibitivi. Sono vini perlopiù sconosciuti al volgo che non potrebbe in nessun caso cogliere la realtà trascendentale che si apre nell’assaggio dell’essere vino. I produttori sono sempre piccoli vigneron dalla camicia a scacchi e le mani sporche di terra, dotati di mirabile modestia e indiscussa genialità, che qualche wine scout ha scovato per puro caso nel peggiore bar à vin di Digione. Radicali e intellettuali come la discografia di Giorgio Gaber.
3. I fakewine: basta avere una vigna e crederci (tanto). Il popolo italiano credo sia dotato di grande fantasia e ingegno. Ed ecco allora che l’ultimo paragrafo è per tutti gli inguaribili ottimisti che hanno pensato di mettere a frutto il loro corso accelerato di storytelling, in 124 comodi fascicoli in edicola a 1.99€. È successo nelle Marche nel Luglio del 2023. Gianluca Guerrini, un produttore di cui mai nessuno aveva sentito parlare, proprietario di una cantina sconosciuta anche ai ben informati, annuncia al mondo l’uscita di Megixstone: il vino rosso più costoso d’Italia. Pochissime inaccessibili bottiglie, circa 200, che saranno vendute a un prezzo che si aggira intorno ai 5000€. Ma attenzione, non basta cedere del vil denaro per aggiudicarsi questa etichetta di cui non si sa assolutamente nulla, ma che promette “un’esperienza di piacere assoluto”, bisogna anche registrarsi sul sito dell’azienda e superare un’accurata selezione, una sorte di Squid Game applicato all’enomondo.

Poche, anzi pochissime le notizie che si hanno di questo vino dopo il clamore suscitato dai ben diffusi comunicati stampa. Pare che sia arrivato nelle carte dei ristoranti stellati della patria di Trump. Chissà, magari lo vedremo nel prossimo video, mentre una ammiccante sommelier in abiti succinti lo versa nei calici di due sorridenti Donald ed Elon in vacanza a Gaza.
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