Nessuno vuole essere Ciliegiolo – Decantico

Nessuno vuole essere Ciliegiolo

“In questo mondo di eroi / nessuno vuole essere Robin”

In un universo parallelo, in cui Cesare Cremonini non è un cantante, ma un sommelier o un appassionato di vino toscano, i versi sopracitati avrebbero potuto prendere più o meno questa forma: “in questo mondo di Brunello / nessuno vuole essere Ciliegiolo”

Non è, anche solo in minima parte, così? Abbiamo tutti i nostri punti di riferimento, quando prendiamo in considerazione una determinata regione vitivinicola del mondo: come un disegno in cui, puntino dopo puntino, lo spazio bianco prende la forma di un’etichetta ben precisa, o a livello macro, di un varietale o di una cantina.

Prendiamo il Piemonte, o la Toscana: qual è il primo nome che viene in mente? Scommetto che non è il Timorasso, né il Canaiolo. Potrebbe essere invece Nebbiolo o Barbera, Sangiovese o Chianti.

I grandi vini, gli autoctoni blasonati che tutto il mondo ci invidia, che fanno impazzire i turisti e che si accaparrano ogni anno dozzine di menzioni d’onore dei più celebri wine critics del mondo.

Tuttavia, il patrimonio ampelografico italiano è talmente ampio e vario che fermarsi in superficie è un sacrilegio, esplorare e spaziare un dovere quasi morale.

È seguendo questo dictat che ho incontrato e perso la testa per il Ciliegiolo: assaggio dopo assaggio è divenuto sempre più un punto di riferimento; adesso è per me una specie di “comfort wine” al quale ricorro con cieca fiducia in determinate occasioni.

Una vita all’ombra del Sangiovese

Il Ciliegiolo è sempre stato un Robin per la superstar toscana per eccellenza, Batman del Chiantishire e oltre, sua maestà il Sangiovese: fedelissimo compagno di blend, ne condivide alcuni tratti ed è perfetto per sopperire alle mancanze del supereroe della situazione, o a smussare certe sue ridondanze.

È nella sua natura gentile e pacata: nel trasformarsi in vino emergono soprattutto il suo carattere intensamente fruttato – principalmente di ciliegie, come suggerisce il nome – la media struttura e alcolicità, nonché una certa predisposizione all’invecchiamento. Tutte queste caratteristiche ben si sposano e amalgamano con le caratteristiche peculiari del Sangiovese: il resto è storia.

Una storia fatta di grandissimi interpreti e vini incredibili, ma non solo; le storie di Sangiovese e Ciliegiolo si intrecciano e si intersecano più di quanto possiamo immaginare.

Un esempio? Sangiovese e Ciliegiolo sono parenti. Uno studio genetico sembra aver definito con certezza che la natura di questo legame vada oltre la sfera meramente produttiva, descrivendo uno scenario in cui il Sangiovese sarebbe nato proprio dall’incrocio di un vitigno denominato “Calabrese di Montenuovo” e il Ciliegiolo stesso.

Non è sufficiente? Aggiungiamo del pepe alla situazione, menzionando che il Ciliegiolo (con uno dei suoi sinonimi “Brunellone”) è stato in passato erroneamente identificato come un biotipo di Sangiovese: Ian D’Agata sostiene questa tesi nel proprio libro “Native Wine Grapes of Italy” e riporta che questa confusione avesse avuto luogo niententepopodimeno che… a Montalcino, la patria del Brunello – vino che, ricordiamo, dovrebbe essere fatto con uvaggio 100% Sangiovese.

Alla riscossa, con gentilezza

Il carattere mite e pacato del Ciliegiolo comunque non gli ha precluso exploit da solista – che negli ultimi anni si sono moltiplicati e gli sono valsi un certo riconoscimento e una meritatissima dose d’attenzione, sia mediatica (dal 2015 esiste addirittura una manifestazione dedicata al varietale, “Il Ciliegiolo d’Italia”) che produttiva: le prove riuscite ormai non si contano più sulle dita di una mano, spaziando dalla Toscana alla Liguria, dall’Umbria al Lazio alla Puglia.

La critica di settore è divisa rispetto alle aree migliori per coltivare questo varietale: c’è chi sostiene che l’Umbria o la Toscana siano i terroir d’elezione, capaci di donare l’espressione enoica più travolgente, chi identifica invece la microzona della Maremma toscana come luogo ideale per il Ciliegiolo (Kim S. et al, Italian Wine Unplugged, 2017, page 93).

Io bevo per la gioia del bere, non per mettermi sul piedistallo: quindi mi astengo da giudizi di sorta; mi limito a nominare quattro assaggi che mi hanno scaldato il cuore, per quattro motivi diversi, e che ritraggono alla perfezione una delle caratteristiche chiave di questo varietale: la propria versatilità.

Tre calici per ricredersi

Per molto tempo si è erroneamente creduto che il Ciliegiolo fosse in grado di regalare ai calici vini monòtoni / monotòni: cosa più che mai lontana dalla verità dei fatti.

Non solo il Ciliegiolo riflette le caratteristiche del territorio in cui viene coltivato, ma l’esistenza di una grande varietà di cloni, coltivati in tutta Italia, garantisce risultati peculiari a seconda delle combinazioni.

Entrando nel vivo di questa disamina, ecco i miei tre assaggi:

  1. Ironista (Podere Anima Mundi) Marta Sierota è approdata a Lari, in provincia di Pisa, nel 2008, e nel suo Podere Anima Mundi ha intrapreso un percorso di recupero di vecchie vigne, tutte coltivate con varietali autoctoni – tra cui proprio il Ciliegiolo. Le vigne sono gestite secondo i dettami della biodinamica. L’Ironista vede il Ciliegiolo in una veste leggiadra e molleggiata: si aprono le danze con un’esplosione di frutti rossi (pare superfluo sottolineare l’inconfondibile aroma di ciliegie) che pian piano lascia il passo a note di spezie appena accennate; è un vino di media struttura, caratterizzato da tannini setosi e perfettamente levigati, con una bella acidità. Fragrante, goloso, dissetante: perfetto per le calde serate estive.
  2. Ciliegiolo (Antonio Camillo) Ci spostiamo in Maremma, e più precisamente a Manciano, dove troviamo uno dei principali promotori e advocate del Ciliegiolo: Antonio Camillo. Questa bottiglia ci regala una versione profonda e dinamica del vitigno: il bouquet aromatico è variopinto, spaziando dalle note fruttate alle spezie, dai sentori di caramello a note più balsamiche. La struttura è corposa, con tannini succosi e una sferzante acidità. Lunghissimo. Da bere, bere di nuovo e poi di nuovo ancora. Magari accompagnato da un tagliere di erborinati.
  3. Toscana Rosato IGT (Sator) Torniamo in provincia di Pisa per l’ultimo assaggio: siamo a Pomaia, nell’azienda vitivinicola Sator. Questo vino avvalora ulteriormente la grande versatilità di questo vitigno, che in questa versione rosata regala un vino elegante e fine, ma di gran carattere. Il bouquet aromatico rimane prevalentemente fruttato, ma dalle ciliegie viriamo nettamente verso note agrumate, con nitidi richiami al pompelmo. È un vino dotato di grande equilibrio, con una bella vena sapida e un’acidità rinfrescante.

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