Il Vino e le sue Leggende – Decantico

Il Vino e le sue Leggende

Storie di superstizioni popolari, proverbi noti e poco credibili poteri associati al vino.

In una terra come l’Italia la cultura popolare non può non essere legata al passato contadino ed artigiano, non può essere priva di leggende, tradizioni e devozioni che rimandino al contesto agronomico. In questo panorama il settore vinicolo ha rappresentato fino alle soglie dei nostri giorni, ed in alcuni casi rappresenta tuttora, un’importante ispirazione per le pratiche non solo strettamente alimentari, ma anche sociali e simboliche.

Il vino infatti risulta essere un importante elemento della socialità collettiva, agendo in alcuni casi come collante sociale o come ispiratore di iniziative conviviali; ma è anche sempre stato parte integrante della vita quotidiana sotto forma di rimedio empirico di problematiche igienico-sanitarie di diversa natura.

Un prodotto considerato magico per la caratteristica di essere completamente diverso dalla materia prima dalla quale è originato e per il fatto di scatenare nell’uomo stati d’animo di incontrollabile euforia, è stato caricato di particolari significati simbolici diversi in ogni epoca ed è anche stato oggetto di numerosi studi per perfezionarne la resa e ad affinarne il gusto, mettendolo in correlazione ora con eventi climatici ora con le fasi lunari, oppure includendo ed escludendo dalla sua produzione alcuni individui ritenuti dannosi alla riuscita del prodotto finale.

Le donne e la ricerca della purezza

Si pensi ad esempio ad una fase importante e delicatissima della produzione, il travaso: dalle cisterne alle botti, da queste ultime alle bottiglie, era considerato un’operazione da effettuarsi con una cura attentissima e meticolosa, pena il rischio di acetificazione del vino. In un passato non troppo remoto, non tutti potevano dedicarsi a questa attività: era un lavoro prettamente maschile poiché (e qui noi donne di tutto il pianeta storceremo il naso in una smorfia di indignazione) la donna, soprattutto se in fase di ciclo mestruale, era considerata in un certo senso “impura” e questa sua “alterazione” avrebbe potuto trasformare il vino in aceto (o anche far acidificare le conserve che preparava in casa, o addirittura far appassire i fiori con il solo tocco delle dita…).

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Le donne però avevano un ruolo importantissimo nel momento della pigiatura, effettuata rigorosamente con i piedi: nelle vasche potevano entrare solo ragazze, preferibilmente giovani e non sposate, probabilmente perché con un peso corporeo minore e una migliore grazia nei movimenti non avrebbero danneggiato gli acini, ma nell’immaginario collettivo il motivo di questa scelta era da ricondursi ad una condizione di purezza di spirito e di corpo che avrebbero preservato il mosto da impurità.

Il vento e la luna

Che dire poi degli influssi delle fasi lunari o dei venti che si riteneva concorressero, o fossero addirittura artefici della riuscita delle operazioni? Naturalmente stiamo parlando di vino prodotto in casa in modo del tutto naturale, senza il supporto di attrezzature tecniche che ne monitorano il processo di fermentazione. 

Si prendano ad esempio alcune regioni del Sud Italia come la Puglia, una penisola battuta dai venti ogni giorno dell’anno: qui si ritiene che la tramontana, secco e fresco vento dal Nord, agevoli il travaso e la filtrazione poiché il vino trattato in queste giornate risulta più limpido e cristallino. Se la stessa operazione venisse fatta in una giornata di scirocco, caldo e umido vento dal Sud, l’esito sarebbe un vino compromesso da maggiore torbidità e con un sapore ossidato.

È per questi motivi che i produttori casalinghi del passato si affidavano al susseguirsi delle stagioni: ognuna di esse, essendo caratterizzata dalla prevalenza di determinati venti, risultava essenziale non solo per il ciclo naturale della vita del vigneto, ma anche per scaglionare le operazioni di conservazione e perfezionamento del prodotto finale. D’altronde si sa “chi pota in marzo e zappa in agosto non si aspetti né pane né mosto”, bisogna effettuare le operazioni giuste nel giusto tempo, sempre che il meteo ci assista, perché ad esempio: “quando di marzo a notte tuona, la vendemmia sarà buona”

Altro fattore rilevante, per ottenere un prodotto di qualità, era rappresentato dal ciclo lunare che aveva un ruolo determinante non solo per le fasi di coltivazione delle piante di vite, ma anche per l’affinamento del prodotto: la potatura delle viti doveva avvenire con la luna piena altrimenti il legno dei tralci sarebbe marcito in pochi giorni compromettendo tutto il raccolto. 

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E ancora, il travaso doveva essere effettuato solo in notti di luna piena (no, non è la scenografia di un film fantasy…) perché il vino sarebbe risultato più limpido e con una maggiore resistenza di conservazione. Un travaso con la luna crescente avrebbe ottenuto come risultato un vino acetificato e con la luna calante un prodotto tanto dolce e pastoso da essere utilizzabile solo per intingere il pane. Secondo alcuni invece, l’imbottigliamento deve essere effettuato al primo quarto di luna, in fase di luna crescente, per ottenere vini frizzanti  e all’ultimo quarto, in fase di luna calante, per ottenere i vini a lungo invecchiamento. Con la luna piena si può imbottigliare invece qualsiasi tipo di vino, ma comunque la luna ideale per imbottigliare è comunque la prima luna nuova di primavera, in Marzo.

Il vino a tavola e nei proverbi

Malgrado le attenzioni di cui necessitava e le accortezze che si rendevano necessarie (o, quantomeno, si riteneva che lo fossero), il vino ha sempre rappresentato non solo un prodotto commerciale, ma un elemento essenziale per l’alimentazione rurale italiana. Alla base del nutrimento quotidiano si trovava il pane, i prodotti della terra e, elemento assolutamente immancabile, il vino.

Spesso veniva utilizzato parte del vino rosso o nero per completare alcuni cibi, renderli più saporiti ed appetibili e migliorarne la conservazione, soprattutto nei rari casi in cui era possibile consumare la carne, proprio come oggi si usa in cucina “sfumare” la carne con il vino. 

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Al momento della vendemmia inoltre, parte del mosto veniva destinato alla distillazione per l’ottenimento di ottima acquavite, mentre alcune porzioni venivano utilizzate per produrre il vino cotto, mosto scaldato a lungo sulla fiamma, che dava vita ad un composto leggermente denso e dolciastro usato, come fosse un antenato povero delle salse e conserve odierne, per addizionare dolci fatti in casa, servito durante l’inverno come intingolo per tozzi di pasta fritta, e gioia dei bambini cui veniva permesso di mescolarlo alla neve, durante gli inverni rigidi, per creare una sorta di granita.

Si poteva rinunciare a tutte le ricchezze alimentari e ad una dieta variata, ma il liquido rosso rubino non doveva mancare sulle mense contadine, finanche quelle più povere; d’altronde si diceva che “chi beve birra campa cent’anni, chi beve vino non muore mai”, quindi per assicurarsi una vita longeva non si poteva far mancare il vino in ogni casa che si rispettasse.

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Si diceva che “chi beve birra campa cent’anni, chi beve vino non muore mai”, quindi per assicurarsi una vita ongeva non si poteva far mancare il vino in ogni casa che si rispettasse.

Bisogna anche considerare che il vino di cui facevano uso in queste circostanze non aveva nulla in comune con i raffinati prodotti attuali dell’enologia: era un liquido dal gusto molto carico, di certo lontano dai bouquet fruttati delle bottiglie ora in commercio, con una gradazione alcolica variabile tra i 14 e i 16 gradi, non limpido e terso come le DOC odierne, ma spesso caratterizzato da un sapore che farebbe rabbrividire ogni Sommelier, in quanto acidulo e vagamente ossidato.

Il vino era anche un compagno di mensa insostituibile per le persone anziane poichè veniva considerato il bastone della vecchiaia: “lu mieru bonu ete lu bastone te li vecchi”(“il vino buono è il bastone dei vecchi”, proverbio Salentino).

In occasione di festeggiamenti particolari, come ad esempio i matrimoni che prevedevano la presenza di numerosi partecipanti, il vino risultava essere una componente irrinunciabile al momento del banchetto nuziale, non solo come complemento alimentare, ma soprattutto perché da esso i brindisi augurali rivolti agli sposi prendevano ispirazione: chi non ha un lontano zio che in pieno banchetto nuziale alza il calice scandendo rime tipo: “questo è il vino della terra mia, faccio un brindisi alla compagnia”, oppure: questo è vino di uva rosa, faccio un brindisi allo sposo ed alla sposa”? si potrebbe andare avanti per ore!

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Il vino: una vera e propria farmacia home-made

Non mancano testimonianze sull’uso del vino in contesti del tutto diversi dalla tavola: in un passato non troppo remoto, si è usato per applicazioni igienico-sanitarie che, per quanto ritenute oggi di qualità prettamente empirica o quantomeno poco ortodossa, bisogna considerarle a pieno titolo come antenate delle cure estetiche odierne che spesso ne ripropongono i benefici.  

Vi sembra strano? Un esempio potrebbe essere l’usanza dei nostri nonni di riscaldare il mosto sulla fiamma e di utilizzarlo come gli attuali olii per massaggi: si dice che fosse un vero toccasana contro i dolori osteoarticolari; un po’ quello che succede oggigiorno in alcuni centri benessere che propongono dei veri e propri bagni di vino (la celebre wine-therapy) non solo come rimedio agli stessi dolori, ma anche e soprattutto come cura di bellezza per ripristinare i corretti equilibri della pelle.

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Che dire poi di raffreddore, tosse e sintomi influenzali in generale: in questi casi veniva prescritta una ricetta casalinga, considerata infallibile, che consisteva nel portare ad ebollizione un bicchiere di vino scuro, che aveva un titolo alcolometrico intorno ai 18 gradi, a cui erano stati aggiunti chiodi di garofano e cannella, per coloro che ne avessero disponibilità, o semplicemente addizionato con la buccia di un limone e dello zucchero o del miele nei casi più fortunati. Deglutire il composto ancora caldo prima di andare a dormire assicurava la decongestione nasale e la liberazione delle vie respiratorie o quanto meno… un riposo indisturbato!

Inoltre “buon vino fa buon sangue” e proprio in relazione a ciò, questa bevanda è stata sempre ritenuta coadiuvante nel recupero delle forze dopo una convalescenza soprattutto se unita al consumo di uova fresche; si raccomandavano i saggi detti popolari: “uovo di gallina e vino di cantina sono la migliore medicina”. Un buon bicchiere di vino rosso aiutava anche in caso di anemia e affaticamento.

Altro utilizzo medicale era per la cura neonatale dell’ossiuriasi: il lavaggio delle parti intime e degli arti inferiori dei bambini con il vino scongiurava il diffondersi dell’infezione grazie alle proprietà disinfettanti dell’alta gradazione alcolica; questo rimedio empirico, associato all’ingerimento di bevande naturali di preparazione erboristica, concorreva all’eliminazione dei vermi depositati nell’intestino… o perlomeno, questo è ciò che si credeva.

I proverbi e gli adagi sono l’eredità popolare del modus vivendi e dei valori di  un determinato territorio; nel lessico italiano moltissimi aforismi si rifanno all’attività vitivinicola, meravigliosi per la saggezza popolare che esprimono, ma soprattutto per il loro modo ironico di commentare la vita, come il detto: “meglio puzzare di vino che di olio santo”, usato soprattutto da coloro che sono avvezzi a lasciarsi andare a qualche bicchiere di troppo per giustificare il loro vizio, in quanto sarebbe sinonimo di gioia di vivere e non di imminente trapasso ad altra vita (è noto che l’olio santo venga utilizzato per consacrare l’estrema unzione). 

Un’altra sentenza prescrive ad un intenditore di vino il comportamento da tenere per una corretta degustazione: “un buon bevitore prima assaggia l’acqua e poi il vino” che sottende una spiegazione più profonda: il vino va assaggiato in compagnia, consumato con moderazione, non come se fosse acqua o solo per dissetarsi poiché potrebbe divenire nocivo, infatti: “un po’ di vino lo stomaco assesta, troppo vino offende stomaco e testa”.

Vi è poi una simpatica filastrocca in dialetto salentino che rimanda, sotto forma di indovinello alla conformazione della vite: “lu tata, tortu e stortu / la mamma pezze, pezze / la fija tantu beddhra / ca cinca passa se scappeddhra” che tradotto suonerebbe: “il padre tutto storto / la madre tutta a stracci / la figlia tanto bella / che chiunque passa si toglie il cappello” riferito alla fisionomia del tralcio, considerato qui il padre dell’uva, che si presenta nodoso ed aggrovigliato; alle foglie della vite, la madre in questo caso, apparentemente simile a degli scampoli di stoffa perché larghe e piatte; all’uva, la figlia in questione, tanto bella da imporre la riverenza a tutti i passanti.

Tradizioni e Modernità: un connubio da tutelare

Ad approfondire l’universo delle tradizioni e delle superstizioni legate al vino si prova un sentimento strano: da un lato sembra di parlare di modi di pensare e di operare completamente desueti, lontani anni luce dalla modernità delle aziende vinicole, realtà sepolte in un passato rurale e superstizioso, ben diverso dai rigidi disciplinari DOC e dagli studi agronomici scientifici. 

Eppure chi coltiva i vigneti per devolvere il proprio prodotto alle grandi aziende, somministrando accuratamente fertilizzanti e pesticidi, spesso è colui che fino a trent’anni fa travasava il proprio vino solo nei giorni di tramontana per timore che intorbidisse. Sarebbe meraviglioso se tutta questa cultura e tradizione venissero appropriatamente tutelate e protette, per ricordarci da dove veniamo e cosa siamo come società, per non rischiare di industrializzarci e globalizzarci troppo, per far sì che presente e passato si completino a vicenda mantenendo non solo il ricordo, ma anche l’attualità di certe tradizioni.

Francesca Romana Stella

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