L’arte attraverso un calice – Decantico

L’arte attraverso un calice

Il vino come opera d’arte

Il vino è come la poesia, che si gusta meglio, e si capisce davvero, soltanto quando si studia la vita, le altre opere, il carattere del poeta, quando si entra in confidenza con l’ambiente dove è nato, con la sua educazione, con il suo mondo.

Questo scriveva Soldati, all’interno del proprio capolavoro Vino al Vino (Primo Viaggio. Autunno 1968; Nelle provincie di Siena e Firenze).

Il vino può diventare arte: inestricabilmente connesso alla scienza dell’enologia e della viticoltura, è in grado di andare oltre il lato meramente produttivo e superficiale per assecondare i guizzi di genio di alcuni illuminati viticoltori – che nel corso degli anni hanno riscritto le regole del gioco.

Il vino è come l’arte, quando è frutto di mano artigiana, unico e irripetibile, mai specchio di se stesso nel susseguirsi delle annate (e quindi, per forza, scevro da logiche commerciali e leggi di mercato) ma moltiplicazione infinita dei ritratti che il proprio luogo di origine, nell’intreccio tra clima, suolo e scelte di cantina, ispira.

Cosa succede però quando il vino viene calato e innestato in altre forme d’arte? Quali intrecci possibili? Quali suggestioni regala?

Dalla poesia, al cinema, alla musica e oltre: musa, volano, comparsa. Vediamo insieme qualche fotografia del vino che prescinde dal senso che lo vede protagonista per antonomasia: il gusto.

La poesia e la celebrazione

L’Ode al Vino di Pablo Neruda è una poesia contenuta nella raccolta “Odi elementari”, del 1954. Nella prefazione leggiamo che si tratta di “una poesia all’insegna delle cose che circondano l’uomo, cose anche minuscole ma sempre essenziali al punto che, vivendo con esse, il nostro sguardo sembra non rendersi ormai conto del loro insostituibile valore”.

È proprio questa nota sul valore del vino che è insostituibile, nonostante a volte venga dato per scontato, questa caratteristica di essenzialità, di visceralità che trasuda dalle parole del poeta che mi spinge a partire da questa poesia.

Leggere, vivere, assaporare il vino come gesto che sembra quasi quotidiano, tanta è la familiarità con esso. Vino da vivere con gioia in un clima di assoluta condivisione: a prescindere dall’ora del giorno o della notte, dalla tipologia, dal nome o dal colore del liquido.

E in seconda istanza anche questo carattere universale, che viene attribuito al vino in quanto tale, nella propria essenza, questo ruolo che acquista nella vita dell’essere umano a priori, quasi che fosse una specie di divinità, o un’entità cui attribuire un che di sacro – il cui cantico deve essere diffuso.

“Vino color del giorno,
vino color della notte,
vino con piedi di porpora
o sangue di topazio,
vino, stellato figlio
della terra, vino, liscio
come una spada d’oro,
morbido come
un disordinato velluto,
vino inchiocciolato
e sospeso,
amoroso, marino,
non sei mai presente in una sola coppa,
in un canto, in un uomo,
sei corale, gregario,
e, quanto meno, scambievole.
A volte ti nutri di ricordi
mortali, sulla tua onda
andiamo di tomba in tomba,
tagliapietre del sepolcro gelato,
e piangiamo
lacrime passeggere,
ma il tuo bel
vestito di primavera

è diverso,
il cuore monta ai rami,
il vento muove il giorno,
nulla rimane
nella tua anima immobile.
Il vino muove la primavera,
cresce come una pianta di allegria,
cadono muri, rocce,
si chiudono gli abissi,
nasce il canto.
Oh, tu, caraffa di vino, nel deserto
con la bella che amo,
disse il vecchio poeta.
Che la brocca di vino
al bacio dell’amore aggiunga il suo bacio
Amor mio,
d’improvviso
il tuo fianco
è la curva colma
della coppa
il tuo petto è il grappolo,
la luce dell’alcol la tua chioma,
le uve i tuoi capezzoli,
il tuo ombelico sigillo puro
impresso sul tuo ventre di anfora,
e il tuo amore la cascata
di vino inestinguibile,
la chiarità che cade sui miei sensi,
lo splendore terrestre della vita.
Ma non soltanto amore,
bacio bruciante
e cuore bruciato,
tu sei, vino di vita,
ma amicizia degli esseri,
trasparenza,
coro di disciplina,
abbondanza di fiori.
Amo sulla tavola,
quando si conversa,
la luce di una bottiglia
di intelligente vino.
Lo bevano;

ricordino in ogni
goccia d’oro
o coppa di topazio
o cucchiaio di porpora
che l’autunno lavorò
fino a riempire di vino le anfore,
e impari l’uomo oscuro,
nel cerimoniale del suo lavoro,
a ricordare la terra e i suoi doveri,
a diffondere il cantico del frutto.”

Il cinema: tra musa e volano

Il mondo del cinema non si è fatto mancare film a tema, tra documentari (uno tra tutti Mondovino, che tratta in estrema sintesi gli effetti apportati dalla globalizzazione e dalla critica all’americana al mondo del vino; oppure il documentario sulla viticoltura eroica in Valtellina, Rupi del vino) e romanzate storie di successo produttivo (mi viene in mente Un’ottima annata); tuttavia quello che più ci interessa, anche in questo caso, è vedere che ruolo assume il vino in pellicole la cui tematica centrale è altro dal vino. Cosa succede quando il vino diviene, in un certo senso, parte del cast di un film?

Passando in rassegna la filmografia di un regista che mi sta particolarmente a cuore – Woody Allen – spesso il vino diviene a tutti gli effetti elemento caratterizzante dei personaggi; in altre si ritrova a essere agente seduttivo, propiziatore di rapporti sentimentali. Nella maggior parte dei casi vediamo, non a caso, bottiglie francesi di un certo spessore, che vanno a contribuire alla caratterizzazione dei personaggi o al delineamento / svolgimento di determinate situazioni.

Prendiamo Misterioso omicidio a Manhattan: a un certo punto la co-protagonista Diane Keaton parla di una sua passata relazione, la cui scintilla era scattata grazie a nientepopodimenochè una bottiglia di Château Margaux (”solo” uno dei più importanti Premier Cru di Bordeaux). In questo caso, pur essendo attribuito al vino un ruolo certamente galeotto, l’intento sembra essere dipingere l’upper class newyorkese con tratti ben definiti e dettagliati.

Altro esempio è costituito dal film Matchpoint, in cui il vino è sì emblema di un certo stile di vita, ma anche complice e parte integrante di un torbido gioco di seduzione: come dimenticare la scena del pranzo in cui Matthew Goode ordina non una, ma ben due bottiglie di Puligny-Montrachet – celeberrimo bianco borgognone – in un tripudio di sguardi languidi.

Chiudiamo questa escalation menzionando Vicky Cristina Barcelona, dove Javier Bardem – senza troppi giri di parole – invita Scarlett Johansson e Rebecca Hall a passare il weekend con lui.

Well, I’d like to invite you both to come with me to Oviedo (…) I’ll show you around the city and we’ll eat well. We’ll drink good wine. We’ll make love.

Non la birra, non un cocktail, non un superalcolico, o qualsiasi altro tipo di alcolico possa venire in mente: anche in questo caso è il vino ad essere visto come miccia per lo scoppio di passione.

La musica: un gioco di specchi

Gli eccessi: croce e motore creativo di un numero pressoché infinito di artisti – alcuni dei quali purtroppo hanno pagato a caro prezzo il proprio abuso di sostanze.Anche in questo caso ci sarebbero tantissimi esempi possibili, ma parleremo di Harry Styles e, nello specifico, della canzone Grapejuice, contenuta nel suo ultimo album Harry’s House. Perché?

  • Sarebbe curioso misurare o perlomeno capire che effetto possa avere questa canzone sull’immagine del vino che ha l’audience di Harry Styles – composta di fedelissime, ormai cresciute, ex Directioners (aka le fan che Harry Styles ha ereditato dalla sua permanenza nella boyband One Direction) e millennials di età variabili (che notoriamente non prediligono il vino rispetto ad altre bevande alcoliche).
  • Il testo della canzone menziona “a bottle of rouge” del 1982 – che mi fa pensare proprio a una bottiglia di vino rosso francese.

Che ruolo ricopre il vino in questa canzone? Dipende dalla prospettiva con cui ci si predispone all’ascolto.

Harry ci racconta che in un bel pomeriggio di sole aveva avuto voglia di andare a comprare dei fiori per una persona x non ben specificata. Però, a un certo punto, aveva avuto un ripensamento e, invece dei fiori, si era recato a comprare del vino, “something old and red”.

Da qui ci troviamo di fronte a un bivio: non è chiaro se il cantante si lasci andare a una dichiarazione d’amore della persona x (cui voleva inizialmente regalare dei fiori) o della bottiglia stessa.

Harry dice di aver pagato la bottiglia più di quanto “avesse pagato per essa precedentemente”, di non poterne fare a meno; dopo un paio di bicchieri ricorda tutti i viaggi fatti assieme, racconta che non ha più voglia di “whites and pinks” – riconducendo il tutto a “the grapejuice blues”, una sorta di malinconia indotta dal (letteralmente) “succo d’uva”.

Non sapremo mai (probabilmente) quale sia la giusta interpretazione, a patto che ne esista una; la bellezza dell’arte sta anche nella libertà di vedere, sentire, percepire le opere filtrandole attraverso la propria esperienza di vita.

A me piace pensare che questa canzone parli, tra le righe, della linea “sottile” che separa il piacere della condivisione di un paio di bicchieri di vino e l’abuso (su più livelli) dello stesso – per i più disparati motivi: liberare la creatività, liberarsi dalle inibizioni, superare momenti.

Quindi il vino in questa canzone si presenta come ambasciatore, un po’ ambiguo, dell’ispirazione del cantante: come se il calice in cui è contenuto fosse uno specchio e ognuno potesse vedere nel riflesso ciò che la propria immaginazione suggerisce in quel momento.

Come andare al museo

Mi piace chiudere ripensando all’articolo scritto in precedenza a tema leggerezza, tornando al protagonista vero e proprio di questo articolo, nella propria forma essenziale: il vino racchiuso in una bottiglia di vetro, avvolta da un’etichetta.

Capita infatti che le etichette vengano commissionate ad artisti: una specie di inception di forme d’arte. Un’espressione artistica contenuta e avvolta da un’altra espressione artistica.

Vorrei in questa circostanza citare una vignaiola ungherese che merita uno sguardo e sicuramente anche (più di) un assaggio. Parlo di Reka Koncz, giovane vignaiola che è passata dal voler studiare gli UFO a fare il vino nella propria terra natia, l’Ungheria, nel comune di Barabás.

Reka ha commissionato le proprie etichette a un artista che si chiama Aaron Billings: possono essere ammirate sul sito web della cantina e, in qualche caso, anche sul profilo Instagram dell’artista stesso (qui** e qui)

Ciò che ci tiene in bilico tra due mondi e, al tempo stesso, in un certo senso, ne provoca la fusione, è un dettaglio: troviamo la firma di Aaron su tutte le etichette.

Apponendo la propria firma, sembra che l’artista stia facendo una dichiarazione d’intenti. Proprio come se l’etichetta fosse a tutti gli effetti un quadro da esporre; come se, con la propria presenza, trasformasse la cantina di Reka, o le enoteche in cui i suoi vini sono distribuiti, in vere e proprie mostre, o musei, in cui la forma d’arte celebrata è proprio quella del vino.

Articoli correlati

Risposte

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *