La Campania attraverso un prisma – Decantico

La Campania attraverso un prisma

La Campania attraverso un prisma

Adesso che ho trent’anni, della mia adolescenza ricordo principalmente due cose: il terrore per le versioni di greco da tradurre e i pomeriggi passati ad ascoltare musica – invece di studiare greco.

La musica anglofona divenne una specie di ossessione, per cui iniziai a passare in rassegna l’archivio digitale di Wikipedia, cercando di individuare gli artisti che maggiormente avevano lasciato il segno dagli anni ‘50 ad allora.

Partii dalla chitarra di Chuck Berry, passando dalle rock band leggendarie, come Beatles, Jethro Tull, Pink Floyd, Dire Straits, attraversando una fase punkeggiante con i Sum 41, gli Offspring, i Blink 182 e i Green Day, per arrivare poi ad altre ondate altrettanto pregnanti e artisti contemporanei, come gli Oasis e i Radiohead.

Ero meticolosa: seguivo un preciso ordine temporale e cercavo sempre di ascoltare le discografie nella loro interezza (quando reperibili) per capire l’evoluzione dell’artista nel tempo e come questa si riflettesse poi nella musica prodotta.

Ma perché parliamo di musica per parlare di vino? Perché ascoltare musica, per la me adolescente, costituiva un ottimo escamotage per saziare un’inesauribile fame di scoperta.

In un certo qual modo, questa fame non si è mai esaurita, ma ha solo cambiato prospettiva: è infatti il motore che oggi spinge il mio enoico vagare.

La Noia e i Pink Floyd

Tra le svariate fonti da cui all’epoca attingevo per ascoltare musica, la mia preferita era senza dubbio la collezione di vinili dei miei genitori, i quali hanno deciso (di loro spontanea volontà e senza alcun tipo di pressione da parte mia) di cedermi quando sono andata a vivere da sola.

Il vinile al quale sono più affezionata probabilmente è The Dark Side of The Moon, dei Pink Floyd. Oltre all’indubbio valore artistico, sono da sempre affascinata dalla copertina. Trovo estremamente poetico quel prisma immerso nel buio, penetrato da un fascio di luce bianco che poi s’infrange in tutti i colori dell’arcobaleno.

Mi è tornato in mente qualche tempo fa, immersa in paradisiache, bollenti acque termali nel verde della campagna maremmana: sapevo di voler scrivere a proposito della Campania, senza riuscire a trovare un angolo che mi sembrasse giusto, opportuno.

È proprio vero che la noia è un vettore fondamentale per la creatività: immersa nelle acque termali ho visualizzato un fascio di luce partire compatto e lucente da un unico punto, per poi impattare in un triangolo e scomporsi, come le sfumature di mille intensità che partono dal medesimo comune denominatore: la Campania.

La Campania a modo mio

Fare un corso per sommelier è utile. Lo è nella misura in cui non si concentra troppo l’attenzione sull’apprendere la divina arte di sciorinare 45 aromi (manco fosse l’elenco della spesa) per ogni vino degustato, ma piuttosto sul definire delle coordinate, una bussola mentale per muoversi nel mare magnum del vino.

Ovvio che, pensando alla Campania, i primi vini che probabilmente ci verranno in mente saranno l’Aglianico, nel caso dei rossi, e il Fiano o la Falanghina, per i bianchi. È ovvio e in un certo senso è anche giusto: questo non deve necessariamente cambiare.

Però, considerando la sbalorditiva varietà ampelografica che abbiamo la fortuna di avere qui in Italia, limitarsi ai big per definire i lineamenti di una regione, o inquadrarne le potenzialità, sarebbe, a parer mio, assurdo e limitante.

Quindi parliamo di Campania, e lo facciamo un po’ a modo mio: oggi tratteggiamo i lineamenti di quattro vitigni inusuali, a tratti eroici, a tratti impacciati, sicuramente unici nel proprio genere, in delle vesti non troppo convenzionali.

Pallagrello Bianco ‘Privo l’Eretico’ Alepa 2019

Approcciamo il primo – e per adesso ancora astratto – volto campano: si chiama Privo l’Eretico ed è prodotto da Alepa: il primo tratto che cattura la mia attenzione è la scelta linguistica; non è il primo vino che incontro in cui l’eresia viene accostata alla macerazione sulle bucce.

Un altro esempio che mi viene in mente è il Petit Manseng – con 30 giorni di macerazione sulle spalle – di San Donatino, denominato Blasfemo.

Chi sono gli eretici? La Treccani scrive: irriverenti, miscredenti che si oppongono alla dottrina. Non sono particolarmente amante di questa definizione per contrapposizione, come se produrre vino ritenuto diverso dagli standard fosse sempre sintomo di lotta e ribellione. A cosa, poi?

Questo eretico, nello specifico, è un Pallagrello Bianco (IGT Terre del Volturno) annata 2019. Frutto di fermentazione spontanea e una macerazione di 8 giorni sulle bucce, affina 12 mesi in acciaio e botti di legno di castagno.

Mi verso il primo calice: ha l’irruenza che caratterizza quasi tutti i cosiddetti orange wines, quello schiaffo – e già mi sono contraddetta – quell’irriverenza, e siamo già a due volte che torno sui miei passi.

Ma dubitare non è forse essere vivi?

Ha il miele, la frutta candita, il terziario che tende a velare un po’ gli aromi primari e secondari, croce e delizia delle macerazioni un po’ spinte. Però ha la sapidità e il sale, e un tannino che prosciuga – come un tuffo in mare d’estate.

Brucia nel petto come un tramonto (ok adesso mi ridimensiono), o come più o meno tutti i vini che fanno 14 gradi: è un vino che sembra urlare la volontà di scappare lontano e abbandonare per sempre il paesello; ma lascia tracce come briciole e un allungo infinito, a chi bevendolo invece sogna di tornare a casa.


Forastera Cenatiempo 2021

Questo interrail in Campania prosegue sull’isola di Ischia: incontriamo l’azienda Cenatiempo e il loro vino biodinamico prodotto con uve 100% Forastera.

Questo vitigno – sconosciuto ai più – deve il suo nome al fatto che arrivò nell’800 sull’isola di Ischia da forestiero, straniero, grazie a una peculiarità fondamentale: la resistenza alla Fillossera.

Al primo sorso i lineamenti sono definiti in un istante: è il sorriso di un ragazzetto al porto che cerca di venderti pesce fresco, mentre tu – forestiera – cerchi di spiegargli che sei vegetariana.

È l’imprevisto di un incontro: due mondi distanti che si avvicinano senza capirsi troppo, ma rispettandosi nonostante e in virtù delle differenze.

Scorza di agrumi, buccia di pesca, con un’acidità citrica che istiga un sorso dopo l’altro, ancora e ancora. Accenni floreali di biancospino. Il modo in cui gli aromi si alternano e si susseguono sa di incontri fugaci, rapidi, evanescenti: com’era quel detto?

A volte le persone che entrano nella nostra vita non sono destinate a rimanere per sempre, ma riescono comunque a insegnarci qualcosa.

Credo valga lo stesso con il vino, a volte: come questo, che mi ricorda un ragazzetto abbronzato, con le punte dei capelli giallo paglierino scolorite dal sole e dal sale.

Lì per lì non ci fai nemmeno caso, eppure capita che un giorno fai tutt’altro e il ricordo si materializza alle porte della mente, o del palato che dir si voglia: un giallo paglierino con unghie dorate, sbiancato dal sole e dal sale.


Spumante Metodo Classico Brut ‘Pietrafumante’ Casa Setaro 2019

La tappa successiva è spumeggiante, come le onde che si infrangono sul bagnasciuga.

Un sorprendente metodo classico prodotto da Casa Setaro, a base di uve Caprettone allevate a 350 metri slm nel Parco Nazionale del Vesuvio. Una spiccata acidità caratterizza questo uvaggio, di fatti il vino che ho scelto è proprio uno spumante.

È di un colore dorato, brillante, che riempie il calice: alterna aromi di frutta matura e candita, crosta di pane, a note agrumate che trovano un rimando nella spiazzante freschezza al palato.

La bollicina, appena si infrange nel calice, è un po’ grossolana, non finissima, un po’ invadente sia al naso che in bocca – ma comunque persistente.

Flashback di qualche minuto prima che la materia fosse liberata dall’involucro di vetro: l’impazienza del tappo nel lasciare il collo della bottiglia ricorda l’ansia dell’attesa, quando sai che non puoi fare nulla per accelerare lo scorrere del tempo, ma non riesci comunque a stare fermo.

La pungenza e la materia scalpitante in bocca ricordano quella gioia frammentata dei ricongiungimenti improvvisi, sognati a lungo e a lungo ritenuti irrealizzabili.

Quella gioia deforme durante la quale non sai bene cosa fare, dove mettere le mani, se porgere la guancia sinistra o quella destra, e quasi dai una testata a chi hai di fronte; quel tenerissimo imbarazzo di un momento immaginato mille volte ancora e ancora – che poi la vita dirige senza badarci troppo.

Quella gioia scomposta che un po’ ci deforma, per una frazione di secondo, riducendoci poi il più delle volte a un sorriso commosso, momentanea afasia, abbracci interminabili.


Piedirosso Campi Flegrei Contrada Salandra 2017

Facciamo il giro di boa con un rosso, a rompere la monotonia di una batteria tutta in bianco: è il Piedirosso di Contrada Salandra, annata 2017, interprete eccelso di un territorio unico come quello dei Campi Flegrei.

La produzione e l’affinamento esclusivamente in acciaio conservano perfettamente ed esaltano i tratti territoriali di questo vitigno: al naso ci sono note di frutti di bosco, erbe officinali, terra bagnata.

Mi ricorda di quella volta che ho abbracciato un albero.

Il sorso è morbido, non troppo caldo, il tannino è lievissimo, una piuma; c’è un substrato acido ma non è assolutamente centrale o predominante, accompagna la dinamica in bocca.

Le fragoline di bosco, le erbe officinali e la terra bagnata che accompagnavano ogni nostro passo, quel giorno. La leggerezza con cui soppesavamo ogni parola per aprirci completamente.

Nessuno giudizio, di alcun tipo: le vere amicizie non scadono mai in questo, ascoltano per ascoltare, non ascoltano per rispondere – tantomeno giudicare.

Solo parole, a piccoli sorsi, fino ad arrivare al nostro approdo: quell’albero, quell’abbraccio riconciliante, il silenzioso manifestarsi della natura.

Perché, proprio come recita la retroetichetta di questo Piedirosso, quando si parla di vini: berli vuol dire diventare parte di una terra.


Per concludere

Un tuffo in mare, un tramonto che brucia nel petto, il sorriso di un ragazzetto al porto, la gioia scomposta dopo una lunga attesa, abbracciare un albero: sono vini che sono persone, quelli che ho assaggiato per dipingere qualche scorcio di Campania.

Sono vini che sanno di relazione, di dirimpettai che stendono i panni al filo, di mercatini rumorosi, di convivialità e comicità. Credo che, accostati alla Campania, tutti questi rimandi abbiano decisamente il loro perché.

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