Il promettente vino del Sol Levante – Decantico

Il promettente vino del Sol Levante

Kon’nichiwa!

l contatto più ravvicinato avuto con il Giappone in vita mia è senza ombra di dubbio costituito dal mio record di 60 giorni consecutivi sull’app Duolingo, tentando disperatamente di districarmi tra hiragana e katakana (due dei tre alfabeti giapponesi) per poi imparare a dire “ ” ovvero “Kon’nichiwa”, ovvero: “Ciao”.

Comunque, una mattina mi sono svegliata e ho avuto un flash riguardo le ultimissime pagine del terzo matton librone AIS (per i profani, è il tomo che prende in analisi le principali aree viticole nel mondo) dedicate al vino in Oriente: in un déjà vu à la Raven ho ricordato nitidamente che in aggiunta a un capitoletto sulla Cina, ce n’era uno, altrettanto striminzito, dedicato al Giappone.

Da lì, istintivamente, un pensiero: “Perché non ho mai provato un vino giapponese?

Perché non provarlo adesso?”

Il resto lo scopriremo insieme.

Mission Impossible: trovare vino giapponese

Mi sento legittimata ad affermare che trovare un vino giapponese da comprare online è più o meno semplice come diventare astronauta alla Nasa: una robetta da niente.

Ho passato in rassegna per giorni l’inventario delle mie enoteche di riferimento online e tutte avevano misteriosamente esaurito le scorte di vino giapponese (n.b. la disponibilità si riduceva a una cantina, quasi sempre la stessa) e le enoteche che bazzico più spesso sul territorio tra un po’ nemmeno sapevano che si producesse vino in Giappone.

Mi sono forse lasciata scoraggiare da questo primo inconveniente? Chi mi conosce sa che sono testarda come un mulo (specialmente quando c’è di mezzo una bottiglia di vino) e, in ogni caso, se siamo qui a parlarne evidentemente non mi sono data per vinta.

Proprio mentre stavo iniziando a pensare che forse avrei dovuto contattare l’ambasciata giapponese in Italia, per puro caso mi imbatto, su Vivino, in un (alquanto misterioso) vino giapponese, chiamato “Adega Vinicola d’Aruga”: il vino è disponibile all’acquisto per la modica cifra di 37€, spedizione compresa.

Si vive una volta sola, quindi, nonostante il nome mi ricordi più una tequila messicana che una qualunque bevanda anche solo vagamente nipponica, tento la sorte e procedo con l’acquisto.

Mission Impossible II: trovare informazioni sul vino giapponese

Superata la difficoltà del reperire fisicamente il vino, mi trovo davanti un altro ostacolo: nonostante profusi sforzi, rintracciare questa fantomatica cantina online è apparentemente impossibile.

Digitando “Branca Clareza” o “Adega Vinicola d’Aruga” su Google, non riesco a trovare niente di utile: vuoi vedere che mi hanno tirato una sola?

Alla fine, di nuovo per puro caso, scopro che la cantina produttrice del vino da me acquistato si chiama Katsunuma Winery, ed è una storica realtà viticola della prefettura di Yamanashi, fondata nel 1937: il vino si chiama “Aruga Branca Clareza” ed è 100% Koshu, annata 2019 – ergo, il buon Vivino, come spesso capita, aveva fatto un po’ di confusione nella definizione del nome del vino e della cantina.

Poco male: nell’attesa di ricevere il pacco con il vino, rispolvero il fantomatico terzo librone di AIS e l’immancabile World Atlas of Wine, per iniziare a capire che cosa mi sono persa finora, non avendo mai provato un vino giapponese.

Decisamente un clima non favorevole per il vino

Possiamo dire che, nonostante la posizione geografica teoricamente favorevole, che vede Honshu -l’isola principale- localizzata alla stessa latitudine del Mediterraneo, in Giappone non c’è mai stato un clima favorevole per la produzione di vino: letteralmente e meno. Procediamo con ordine.

Innanzitutto, dobbiamo ricordare un fatto storico rilevante: benché il vino fosse diffuso nel Paese già a partire dal 1500 (grazie ai missionari portoghesi che lo utilizzavano nelle proprie funzioni religiose), nel XVII secolo lo shogun Tokugawa Ieyasu proibì diverse pratiche occidentali, tra cui proprio la viticoltura.

Quindi dobbiamo aspettare fino al 1875 per vedere la nascita della prima cantina moderna nel Paese e il 1970 per un vero e proprio sviluppo di pratiche di viticoltura moderna.

Questo ha fatto sì che altre tipologie di bevande prendessero maggiormente piede in Giappone, come la birra, il whiskey, o il sake – per citare le tre che sono probabilmente più famose.

Inoltre, ad oggi, vige la possibilità di etichettare come “vino giapponese” anche del vino estero importato e imbottigliato in Giappone: certamente non la migliore pratica per stimolare la produzione interna e valorizzare l’offerta del territorio.

Di fatto, all’interno della denominazione “Domestic wine” giapponese si trovano due categorie:

1. Kokunai sen, ovvero vini elaborati con sole uve giapponesi.

2. Yunyu sen, ovvero vini prodotti con uve giapponesi e uve importate.

Tuttavia, dal 2002 è in atto un’importante opera di valorizzazione – fortemente osteggiata dai maggiori gruppi produttori – dei vini ottenuti da sole uve giapponesi con l’obiettivo ultimo di far sì che possa essere denominato “Domestic wine” solo il vino prodotto interamente in Giappone.

In ultimo, non in ordine di importanza, dobbiamo considerare che le nemmeno le condizioni climatiche in senso stretto sono favorevoli: altissimi tassi di umidità, piogge torrenziali e tifoni, combinati con terreni molto acidi e fertili, di sicuro non vanno a braccetto con la viticoltura.

Di conseguenza, le zone con condizioni pedo-climatiche favorevoli sono circoscritte a l’Isola di Hokkaido, le prefetture di Yamagata e Nagano (entrambe situate a nord di Tokyo) e la prefettura di Yamanashi (a ovest di Tokyo).

Uve insolite per una produzione scarna

Assovini riporta che, al 2021, la produzione di vino giapponese si aggirava intorno

al milione di ettolitri, con netto predominio di vino bianco.

Qui, come in tutte le altre aree viticole del mondo, vengono coltivati, con discreto successo, diversi varietali internazionali: al novero abbiamo il Cabernet Franc, il Merlot, il Müller Thurgau e il Riesling.

I vitigni di origine americana si sono adattati alle sfavorevoli condizioni climatiche molto meglio di quanto abbiano fatto le controparti europee.

Di fatto, spicca tra i varietali più diffusi l’ibrido americano a bacca bianca delaware (vitis x labruscana), l’incrocio a bacca rossa Muscat Bailey A (bayley x Muscat d’Hambourg – creato negli anni ’20 da Kawakami Zenbei, uno dei primi vitivinicoltori giapponesi) e il Koshu, dalle origini incerte, caratterizzato da grossi grappoli dalla calda tonalità rosa tendente al grigiastro.

Il misterioso Koshu

Come sia arrivato in Giappone è un mistero: con tutta probabilità è giunto dall’Europa, anche se in Cina non v’è traccia di questo varietale.

La sua buccia spessa lo rende ideale per sopportare al meglio il clima estremamente umido del Giappone: dai suoi grossi acini si ottengono tendenzialmente vini bianchi con un discreto residuo zuccherino.

Un tempo quest’uva veniva dedicata alla produzione di vini prettamente semplici; in tempi recenti, sempre più spesso, sono stati condotti esperimenti per provare ad alzare l’asticella in nome della complessità: dall’uso delle barrique, alla fermentazione sur lies, i risultati sono stati definiti più che interessanti.

Anche la bottiglia da me acquistata, fortunatamente, rientra tra gli sforzi per elevare quest’uvaggio: l’Aruga Branca Clareza di Katsunuma Winery – proveniente dalla prefettura di Yamanashi – non ha fatto passaggi in legno, ma un affinamento di 6 mesi sui lieviti.

Si presenta con un tono pallido, un giallo paglierino decisamente scarico, quasi trasparente, dall’unghia verdognola.

Al naso si svela con calma – all’inizio mostrando note principalmente floreali, delicatissime. Con il tempo, arrivano note nettamente più agrumate, spaziando dalla buccia del mandarino al pompelmo. Infine, un sorprendente accenno di pietra focaia.

Ma la vera sorpresa è la dinamica in bocca: nonostante l’affinamento sur lies, e principalmente a causa del colore, pensavo di trovarmi di fronte a un vino più orientato alla semplicità che alla complessità: mi sbagliavo.

L’ingresso in bocca è di un’acidità sferzante, citrica; la consistenza si fa via via più cremosa, per lasciare spazio a un retrogusto decisamente dolciastro – vorrei dire biscottato, quasi. Ha una lunghezza che tanti altri bianchi “blasonati” si sognano.

In tre parole: questo Koshu è leggiadro, dinamico, elegante. In una sola: promettente.

Quindi, per chiudere: se queste sono le premesse, non vedo l’ora di approfondire la questione.

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