Girls just want to have fun (wines) – Decantico

Girls just want to have fun (wines)

And girls, they want to have fun, Oh girls just want to have fun!”

Cantava Cyndi Lauper negli splendenti anni ‘80.

Girls just want to have fun wines, aggiungo io – specialmente adesso che l’estate è iniziata con un mesetto di anticipo. Questo è un elogio a una categoria di vini spesso sottovalutata e che si inserisce in una rivoluzione che io sento più che mai necessaria – e non dal punto di vista esclusivamente stilistico.

Ma in che senso “fun”? E soprattutto, che senso può assumere l’aggettivo “fun” riferito al vino? Per me “fun” in questo caso vuol dire “leggero”; ma “leggero” come Italo Calvino intendeva la leggerezza: non frivolo, non semplicistico, tantomeno superficiale.

Quando dico che questa rivoluzione del pensiero intorno al vino non riguarda esclusivamente il punto di vista stilistico, penso principalmente a tre aspetti:

  1. Come raccontiamo e come parliamo del vino
  2. L’involucro, l’aspetto visivo del vino
  3. La struttura sensoriale-gustativa del vino

Procediamo per ordine.

Il racconto del vino

Chiunque abbia lavorato nel mondo del vino, o gravitato per vari motivi attorno ad esso, al sentire questa frase: “innovazione nella tradizione” avrà una reazione standardizzata, articolata più o meno come segue:

  1. drizzare le orecchie tipo il cane di Pavlov nell’udire il campanello
  2. eye-rolling tanto involontario quanto inevitabile
  3. sbadiglio fragoroso

Quante volte abbiamo sentito questa frase? Talmente tante che ormai ha perso completamente significato: non vuol dire assolutamente niente.

Per fortuna non tutte le aziende sono tuttora ancorate a questo paradigma comunicativo “standard” e – ammettiamolo – un po’ noioso, che contribuisce a rendere il mondo del vino poco appetibile per le fette di consumatori più giovani e dinamiche (che, spoiler: sono i consumatori del futuro, amici produttori).

Tra tutti gli esempi di comunicazione virtuosa possibili, il primo che mi viene in mente è proprio lui: il caso Tavernello.

Prendendo in analisi il sito web, bisogna ammettere che non sono stati fatti troppi sforzi (anche qua si cade nel tranello della tradizione e blabla) se non dal punto di vista della navigabilità del sito, che è estremamente agevole; lo straordinario succede altrove e, più precisamente, sui profili social, come ad esempio Instagram: comunicazione digitale pensata per gli utenti, contemporaneità, leggerezza.

Tavernello si racconta per essere capito, conosciuto, forse pure apprezzato (chissà), con un’idea e un’identità chiara e definita in mente. La bio? “L’orgoglio, senza pregiudizi”. Geniale.

Questo è il motivo per cui tutte le cantine dovrebbero avvalersi di un social media manager professionista, e non del cugggino dell’amico informatico smanettone.

Non basta il profilo Instagram per farci riflettere sulla questione? Aggiungiamo che hanno registrato un video promozionale con Maccio Capatonda.

Cosa ci portiamo a casa da questo primo esempio di leggerezza? Che tutte le cantine dovrebbero comunicare come Tavernello? Ovviamente no; il succo della questione è che una comunicazione diversa è possibile e attuabile. Che tutte le cantine dovrebbero lavorare per trovare una propria voce, in grado di distinguerli, e dare una spolverata (metaforicamente e non) al proprio modo di essere nell’ecosistema digitale.

A volte l’abito fa il monaco

Spostando il focus su un altro aspetto comunicativo non meno importante, parliamo delle etichette: okay, ci sono certi tipi di vino che hanno delegato al proprio immobilismo parte del proprio allure, eterno fascino, carattere esclusivo; okay, ci sono alcuni vini che non hanno bisogno di presentazioni – e apparentemente nemmeno di un sito web che svolga la benché minima funzione.

Però non viene da tirare un sospiro di sollievo quando riusciamo a prenderci un po’ meno sul serio? Io credo che l’avvicinamento dei cosiddetti “non addetti ai lavori” al vino sia ostacolato in parte anche dal pensiero diffuso che il vino sia una bevanda concettualmente pesante.

Conoscete etichette di Barolo che non siano in qualche vago modo in grado di intimidire il prossimo? O un’etichetta di Brunello di Montalcino che non metta in soggezione? E via dicendo. Se iniziassimo a parlare dei cerimoniali per scegliere una bottiglia di vino al ristorante probabilmente potremmo andare avanti per ore – e andare fuori tema.

Per fortuna la rivoluzione cui accennavo prima sta timidamente intaccando anche questo aspetto: da quasi una decina d’anni abbiamo assistito a una lenta presa di coscienza da parte di tante cantine, culminata in un alleggerimento dell’involucro del vino.

Tralasciando il peso delle bottiglie, l’utilizzo o meno di materiali sostenibili, ci siamo presi finalmente la libertà di conferire tutt’altro aspetto alle bottiglie.

Mi viene in mente il connubio tra Van Orton e Banfi per La Pettegola Limited Edition 2022, oppure l’etichetta del Vino Cotto di Podere San Biagio, ideata in collaborazione con Maicol & Mirco, oppure la bottiglia Il Cielo Sommerso, di Tenuta Marcello: tre diverse manifestazioni di leggerezza che non tradiscono il valore né la qualità di ciò nell’involucro è contenuto.

Planare sulle papille gustative

In ultima analisi, mi piace ricorda una citazione attribuita a Paul Valéry: “Il faut être léger comme l’oiseau, et non comme la plume”. Tradotta in italiano recita più o meno così: “Si deve essere leggeri come l’uccello che vola, e non come la piuma”.

La mia personalissima interpretazione è la seguente: bisogna essere consapevolmente leggeri, con un’idea chiara di come si vuole fendere il vento; non abbandonarsi al corso delle cose, alle brezze, come una piuma in balia delle correnti. Ché son due tipi di leggerezza assai diversi.

Ecco i vini che planano sulle (mie) papille gustative con leggerezza, senza “macigni sul cuore”:

  • Lezèr (Azienda Agricola Foradori) Blend di uve Teroldego (68%) e altri varietali (32%) vinificate con brevissima macerazione, per un vino rosso talmente leggero che quasi sembra un rosé. Un vino che si svincola dalle etichette, dai colori, dalle convenzioni, con quella silhouette così snella, con quel suo attacco leggermente vinoso che si tramuta sorso dopo sorso in fragole e frutti di bosco: una celebrazione totale della leggerezza.

  • Nur (La Distesa) Più che un vino un manifesto: il vino di Corrado rappresenta la luce in fondo a svariati tunnel. L’abbandono della città per il ritorno alla campagna e la ricerca di una vita diversa è oramai divenuto un topos in ambito enoico; la chiave del ritorno alle origini di Corrado sono trasparenza e leggerezza: il Nur è un vino che mette alla prova e sfida papille gustative assuefatte ad altri gusti, altri colori, altre limpidezze. Non fatevi intimidire dall’apparenza torbida che probabilmente vi riserverà il calice: un mondo di frutta tropicale, un corpo sinuoso stemperato da una bella spalla acida e un assaggio lunghissimo vi aspettano oltre l’angolo della diffidenza.

  • Indigeno (Ancarani) Trebbiano gioioso e spensierato: si apre con note floreali e agrumate, rivelando un corpo leggiadro ed elegante, con una nota acida finale che ricorda vagamente il mondo delle birre sour. Beva compulsiva. Chiudiamo con le istruzioni per l’uso sul sito stesso di Ancarani: “rinfrescare e agitare la bottiglia, sorseggiare e sorridere”.

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