esCAMOtage, tutela e valorizzazione del Moscato Secco: intervista a Francesco Bocchino di cantina Tojo, tra i fautori del progetto – Decantico

esCAMOtage, tutela e valorizzazione del Moscato Secco: intervista a Francesco Bocchino di cantina Tojo, tra i fautori del progetto

Come anticipato da Davide nel suo articolo dello scorso 4 maggio – qui il link per chi se lo fosse perso: https://www.decantico.com/spoiler-alert-il-moscato-non-e-piu-dolce/ – il “Moscato non è più dolce” o, quantomeno, non solo; sebbene quella del moscato sia una grande famiglia – numerose, infatti, sono le varietà -, gran parte della sua storia è inevitabilmente legata a quella del Moscato d’Asti, dell’Asti spumante e ai loro anni d’oro.

Gli anni ’70, infatti, videro la nascita delle cosiddette “industrie del Moscato” che  si frapposero fra i piccoli proprietari terrieri e la sempre crescente domanda di  vino; questo fenomeno – per il quale si arrivò, persino, a sostituire i filari di  dolcetto con quelli di moscato – fece leva su quanto accadde nel dopoguerra,  quando per esigenze di sostentamento si favorì un frazionamento e quindi  rimpicciolimento delle particelle, e sull’ineluttabile flusso migratorio della forza  lavoro verso le città.

Inoltre, va considerato anche che l’investimento iniziale per la produzione è a dir  poco impegnativo; gli alti costi delle autoclavi e dell’imbottigliatrice isobarica hanno, infatti, spinto, sempre più, i piccoli produttori ad abdicare la lavorazione  delle uve alle grandi aziende, cui finivano col rapportarsi, esclusivamente, come  conferitori.

Con gli anni, però, la quantità è andata, sempre più, a discapito della qualità;  inoltre, rispondendo a logiche di mero profitto, si è passati sopra al valore della  materia prima e alla tutela della biodiversità, depauperando quello che, per  storia, era da considerarsi, invece, un vero e proprio patrimonio enologico. Completamente snaturato dalle logiche del mercato, il Moscato ha, quindi, attraversato anni bui, prendendo l’accezione di “vino industriale”, standardizzato  e privo di appeal. 

In cerca, quindi, di riscatto, il Moscato sembra aver recentemente trovato alcuni  giovani produttori disposti a mettersi in gioco – e battersi – per lui; unendo, all’amore per la propria terra, creatività, audacia e incrollabile volontà, in 6 – oggi  sono in 10 – hanno dato vita, nel 2019, all’associazione “Aroma di un Territorio”.  Nell’intento di risollevare la terra natia del Moscato, hanno scelto di proporre non un prodotto nuovo, quanto piuttosto alternativo – che di storia ne ha comunque  da vendere -: il Moscato Secco, ribattezzato dagli stessi – poi vedremo perché – esCAMOtage. Incuriositi da tale spinta innovatrice, ne abbiamo parlato con  Francesco Bocchino, uno dei 6 soci fondatori, nonché giovane produttore di Santo  Stefano Belbo. 

Innanzitutto, perché avete deciso di puntare proprio sul Moscato  Secco?

Il nostro territorio riemerge, svalutato, da anni di totale indolenza, cui si sono  sommate le decisioni – prioritarie e non sempre sagge – dell’“industria del  Moscato”; da un lato, infatti, i piccoli produttori, diventati esclusivamente  conferitori, hanno chiuso più di un occhio sul destino delle proprie uve, in favore  di un “reddito sicuro”, dall’altro si è scientemente rinunciato ad una selezione  qualitativa della materia prima, a favore della quantità – e quindi di maggiori  introiti -, senza alcuna attenzione ai prezzi – soprattutto minimi – di vendita. 

A questo punto, per risollevarsi da un tale gioco al ribasso, occorre fare due cose:  quello che gli altri non fanno più e quello che gli altri non fanno ancora. Tornare,  cioè, a puntare sulla diversificazione, sui tratti più peculiari del Moscato – diversi  a seconda della zona di provenienza delle uve -, sui piccoli produttori e su una  produzione che possa essere, a livello di investimento, più accessibile; il Moscato  Secco – di cui si è scoperta, tra l’altro, una straordinaria longevità – risponde a  tutte queste esigenze e ci aiuterà, inoltre, a superare un doppio pregiudizio:  quello legato alla standardizzazione del prodotto finale e quello ancorato alla  credenza popolare che sia pressoché impossibile ottenere un Bianco Secco di  qualità a partire da uve aromatiche autoctone piemontesi. 

Con la costituzione dell’associazione “Aroma di un Territorio” vi siete  dati anche un disciplinare interno, quali sono i punti chiave? Come è  nato, invece, il marchio esCAMOtage?

Il nostro disciplinare definisce la zona di produzione, regolamenta viticoltura e  vinificazione – si possono utilizzare, esclusivamente, uve di moscato bianco di  Canelli e la zona di produzione comprende la provincia di Cuneo e quella di Asti,  mentre la “core zone” è ascrivibile esclusivamente ai paesi di Santo Stefano  Belbo, Castiglione Tinella, Cossano Belbo e Coazzolo – e norma anche il consumo, 

ponendo l’accento sul prezzo minimo di vendita; è, inoltre, totalmente vietato, in  vigna, l’utilizzo di diserbanti chimici, sia nel sottofila che nel filare. 

esCAMOtage, invece, è un “nome di protesta”, nato in risposta alle innumerevoli  difficoltà burocratiche riscontrate nel tentativo di voler dare un’identità a questo  vino che inizialmente avevamo pensato di chiamare Camo, come la frazione di  Santo Stefano Belbo, al centro della zona di produzione; convinti, infatti, che il  riferimento al territorio d’origine non potesse mancare, abbiamo immaginato di  poterlo mascherare inserendolo, magari, all’interno di un’altra parola:  esCAMOtage, quindi, è anche un espediente, un’astuta trovata. 

Oggi, finalmente, il marchio esCAMOtage compare, sotto forma di bollino, su tutte le nostre bottiglie di Moscato Secco. 

Nel disciplinare si specifica, anche, che i vigneti destinati alla  produzione dei vini a marchio esCAMOtage devono essere tali da conferire alle uve e al vino specifiche caratteristiche di qualità; stando  a un dato ormai accertato, è nei Sorì che nascono le migliori uve di  moscato, ci parli del nuovo marchio “Sorì Eroici”? 

Lanciato dall’Associzione Comuni del Moscato, il marchio intende valorizzare i  Sorì – vigneti eroici, con pendenza oltre il 40%, con esposizione sud, ovest ed est,  nella maggior parte dei casi non meccanizzabili – e i loro prodotti, che chiedono  grandi sforzi, anche economici – i costi di gestione di un ettaro di vigneto a Sorì  sono almeno 3 volte superiori a quello di un comune vigneto – ai viticoltori. 

I Sorì sono un vero e proprio unicum ma è proprio la loro peculiarità a renderli a  facile rischio di abbandono; lasciarli al loro infausto destino sarebbe un enorme  danno, a livello di immagine, per il territorio – entrato, nel 2014, a far parte  dell’Unesco soprattutto grazie a questi vigneti eroici -, le colline qualitativamente  più significative diventerebbero, in breve tempo, gerbidi e si andrebbe,  facilmente, incontro a un dissesto idrogeologico. 

Il marchio “Sorì Eroici” è una sorta di menzione di cui potranno fregiarsi gli  appezzamenti con una pendenza minima del 40%, che appartengono ad aziende  già in possesso di una certificazione ambientale, come quella biologica,  biodinamica, SQNPI, The Green Experience o altri protocolli di sostenibilità  certificati; oltre a mettere l’accento sull’eccezionalità di certe uve e dei vini che 

se ne ricavano, si andrà così a gettare le basi per una tutela più ampia, che  coinvolga non solo i viticoltori ma anche enti pubblici e associazioni. Come scriveva Cesare Pavese, originario proprio di Santo Stefano Belbo, “una  vigna ben lavorata è come un fisico sano, un corpo che vive, che ha il suo respiro  e il suo sudore”. 

Per chi volesse approfondire ulteriormente riportiamo il link al libro “Moscato:  pane, burro e acciughe” – con prefazione di Carlo Petrini e postfazione di Walter  Massa -, in cui 8 dei membri dell’associazione “Aroma di un territorio” si  raccontano – e raccontano del loro progetto – passando attraverso la storia della  propria terra d’origine e di coloro che li hanno preceduti – bisnonni, nonni, padri  e madri -. 

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