Dorona, erbamat e caprettone: riscoperta e valorizzazione dei vitigni dimenticati
Superano i 500 i vitigni autoctoni ufficialmente riconosciuti in Italia: quasi impossibile elencarli tutti; gli stessi nomi insoliti, spesso legati al dialetto locale, non facilitano sicuramente l’impresa.
A questi poi si aggiungono tutte quelle varietà che con gli anni sono andate incontro all’oblio, abbandonate o espiantiate a favore di altre, di più facile coltivazione e lavorazione, spesso anche di moda; oggi, fortunatamente, in un’ottica di riscoperta e valorizzazione delle peculiarità territoriali, si sta preferendo, sempre più, l’identità alla tendenza del momento. Esemplificativa, in tal senso, è la storia del timorasso, vitigno dimenticato che, grazie alla determinazione di un produttore illuminato come Walter Massa, è destinato a nuova vita.
È stato, probabilmente, lo stesso “caso timorasso” a fare da traino per il recupero di altre varietà dal passato similare; tra queste dorona, erbamat e caprettone. Il primo è considerato un vitigno povero, molto diverso dai più noti, soprattutto da quelli internazionali, in grado di dare praticamente ovunque ottimi risultati. La dorona, il cui nome sta chiaramente a significare uva d’oro, è una varietà a bacca bianca tipica del veneziano, adattatasi nei secoli a crescere sui peculiari terreni delle isole lagunari; molto apprezzato dai Dogi, per il vino bianco che se ne ricavava, il vitigno è caduto nel dimenticatoio a seguito dell’alluvione del 1966, quando le viti rimasero, per molti giorni, sotto l’acqua alta.
Infatti, nonostante fosse un evento -responsabile in parte anche delle peculiari caratteristiche organolettiche delle uve – al quale, in qualche modo, ci si era abituati – tant’è che anche le viti prendevano, occasionalmente, la sembianza di mangrovie -, la permanenza in acqua fu in questo caso intollerabile e determinò la distruzione della quasi totalità dei vigneti. L’episodio che, in seguito, segnò il nuovo destino della dorona coinvolge Giancarlo Bisol, produttore della zona di Valdobbiadene; fu quest’ultimo, infatti, a ritrovare, nel 2002, in un giardino privato di Torcello, isola della laguna veneta, alcune barbatelle di dorona.
A seguito del prezioso ritrovamento, la famiglia Bisol, nel 2007, ha preso in affitto le tenute di Mazzorbo, dal 1300 a destinazione agricola e dal 1800 dedite alla produzione di vino, e qui ha dato nuovamente via alla coltivazione della dorona; la 2010 è stata la prima vendemmia in commercio, sono state prodotte 3000 bottiglie, da mezzo litro, numerate con un’incisione a mano e rese ancora più preziose da una foglia d’oro fusa all’interno del vetro.
Per quanto riguarda il vino, vanno innanzitutto considerate le caratteristiche delle viti e delle uve da cui lo stesso nasce; le prime sono esili, a 12-13 anni sembrano, in realtà, averne appena 7-8: in laguna è difficile, infatti, ottenere grande vigoria. Basti pensare che, se per quanto riguarda il terreno, in letteratura sono considerate ottimali 50-110 ppm di sodio – cioè parti per milione -, le viti di dorona crescono su suoli che arrivano anche a 500 ppm, ben oltre il limite di 200.
Il vino che se ne ricava, quindi, fa da specchio ai principali connotati del terroir; una lunga macerazione, di almeno 30 giorni, cui fanno seguito 18 mesi di affinamento in vasche di acciaio, garantisce una buona estrazione e permette al vino di sopportare anche le estati più calde.
Spostandoci da Venezia alla Franciacorta incontriamo, poi, l’autoctono erbamat. Citato per la prima volta, nel 1564, da Agostino Gallo, agronomo italiano del ‘500, ne “Le vinti giornate dell’agricoltura e de’ piaceri della villa’, l’erbamat è una varietà a maturazione tardiva, di buona acidità, abbandonata, negli anni, a favore di chardonnay, pinot nero e pinot bianco, vitigni base per la produzione del Franciacorta DOCG.
La sua recente riscoperta sembra avere, almeno in parte, un collegamento con i cambiamenti climatici; infatti, l’innalzamento delle temperature estive sta sempre più anticipando la vendemmia dei pinot e dello chardonnay, a svantaggio di quei livelli di acidità che sono da considerarsi fondamentali nella spumantizzazione con metodo classico. L’erbamat, dal canto suo, oltre ad avere – come già detto – una caratteristica acidità, ha anche un basso contenuto zuccherino; la sua tardività, poi, se da un lato garantisce lo sviluppo di una peculiare complessità aromatica, dall’altro ben si adatta al global warming.
Una delle aziende che da qualche anno si sono impegnate nel recupero e nella valorizzazione dell’erbamat è Castello Bonomi; avendo deciso, in origine, di vinificare separatamente le uve è, ad oggi, l’unico produttore a poter vantare una verticale di annate a partire dalla 2011.
Chiude, infine, il trittico di oggi, il caprettone, varietà che, di primo acchito, colpisce sicuramente per il nome; se alcuni lo fanno risalire alla forma del grappolo, simile alla barbetta della capra, altri ritengono che sia piuttosto legato a coloro che per primi ne intrapreso la coltivazione, cioè i pastori di capre. Confuso, per anni, con la coda di volpe, il caprettone è entrato nel registro nazionale solo nel 2014 ed è esclusivamente diffuso nei comuni che si trovano alle pendici del Vesuvio; qui è oggi protagonista del Vesuvio Bianco DOC, composto per l’80% da caprettone e per il restante 20% da falanghina e greco.
Molti produttori, negli ultimi anni, si sono impegnati nel recupero di centinaia di ettari di caprettone abbandonati; piuttosto resistente alle comune crittogame e, in particolare, alla botritis, il caprettone raggiunge un buon livello zuccherino alla raccolta ma non manifesta elevata acidità. In purezza, se ne ottengono vini di buon colore e struttura, in cui, grazie alla natura vulcanica dei terreni, mineralità e sapidità sono dirimenti.
Risposte