Cartoline Valdostane – Decantico

Cartoline Valdostane

Vini come montagne

Ci si accorge di essere arrivati “in Valle” anche senza aver letto l’apposito cartello al confine con il Piemonte: dilaga un verde smeraldo dai toni scuri, costellato di roccaforti e paesini incastonati come diamanti grezzi nelle montagne.

Qui le montagne sovrastano ogni cosa, quasi troneggiano con la propria imponenza, vere regine del paesaggio: a primo impatto possono mettere in soggezione – specialmente chi non è abituato a trovarsele di fronte quotidianamente – ma dopo qualche giorno diventano familiari, rassicuranti.

Queste non sono montagne qualunque; infatti la Valle d’Aosta è stata (ed è in parte ancora) interessata dall’orogenesi alpina: in sostanza qui si sono incontrate e scontrate le placche continentali europea e africana.

In Valle d’Aosta risuona il silenzio, echeggia, quasi: anche i vini valdostani parlano poco, hanno bisogno di spazio e tempo come le montagne per assumere tratti familiari e finalmente sussurrare la propria identità.

La Petite Arvine di Rosset Terroir

Dettaglio della polenta concia incriminata

Noi italiani, con ogni probabilità, siamo le persone che parlano di cibo più di qualsiasi altro popolo al mondo; spesso parliamo di cibo anche durante i pasti: mangiando una lasagna possiamo ritrovarci magicamente a commentare gli gnocchi di qualche sera prima.

Nella nostra prima sortita nel centro di Aosta, di fronte a una scodella fumante di polenta concia è stato inevitabile rivolgere un rapido pensiero alla cucina del sud d’Italia, sovente dipinta come “pesante”.

Ecco, una settimana in Valle d’Aosta ha ridefinito la mia personalissima concezione del suddetto aggettivo; ma soprattutto, mi ha aiutato a individuare il primo grande pregio di uno dei varietali più conosciuti del territorio.

Senza l’aiuto della Petite Arvine di Rosset dubito che sarei arrivata in fondo al piatto illesa: sorso dopo sorso ho potuto saggiare l’essenzialità della freschezza in un sorso dinamico e lungo, perfetto per smorzare la pesantezza intrinseca della polenta concia.

La Valle d’Aosta nel mondo: Grosjean

Mentre mi mettevo in contatto con varie cantine, non avevo ben chiaro chi volessi visitare di preciso; quando alla fine mi è rimasta una manciata di nomi papabili tra le mani ho avuto come una folgorazione: perché non visitare una grande cantina – più commerciale – e una realtà più piccola?

Così sono finita da Grosjean che, grazie a 150.000 bottiglie prodotte l’anno, con 16 ettari di vigneto, può essere a pieno titolo definita la cantina più grande della regione.

A primo impatto, Grosjean ha sempre un che di rustico, familiare; bastano pochi passi in cantina per capire che in realtà è stata raggiunta una maturità commerciale che ormai di familiare ha solo il fatto di essere gestita dalla terza generazione, per l’appunto, della famiglia Grosjean.

Si accede alla cantina da quella che sembra la porta di un garage: visitiamo l’area dedicata alla produzione, allo stoccaggio, all’affinamento – che avviene in botte o in acciaio a seconda del vino – accompagnate dall’addetta alle visite, che sciorina senza sbavature l’intera storia familiare.

Nella mente ho registrato soprattutto la volontà di crescere, lo sguardo puntato verso i mercati esteri e la predilezione per botti di rovere francese di secondo passaggio per l’affinamento dei vini – eccezion fatta per lo Chardonnay che affina in botti nuove, lavorate a vapore.

Planiamo poi in sala degustazione, vuota (d’altronde erano le 10:30 del mattino) e tenuta ben in ordine, con un grande quantità di bottiglie aperte su varie mensole, foto storiche e un video un po’ markettaro in filodiffusione a reiterare la storia dei Grosjean.

Due le anime produttive: da un lato la linea denominata Classica, dall’altro la linea Biologica (la conversione è avvenuta nel 2011); decidiamo di concentrarci sulla linea Biologica.

Partiamo con quella che si rivelerà la punta di diamante della batteria: la Petite Arvine proveniente dalle vigne Rovettaz. L’affinamento di 9 mesi avviene per il 70% della massa in botte di rovere, mentre il rimanente 30% affina in acciaio.

Al naso si presenta con accenni floreali e fruttati – poco nitidi, a causa anche della temperatura di servizio – e lievi note speziate sullo sfondo. Al palato ha medio corpo, è morbido, nonostante una freschezza spiazzante – che mi fa pensare a un potenziale di invecchiamento niente male. Nel retrogusto vanigliato si fa decisamente sentire l’affinamento in botte.

Dopo questo inizio scoppiettante passiamo allo Chardonnay (di stampo e aspirazione francese) per poi passare al Cornalin (di un’annata decisamente troppo giovane, la 2021; sarei curiosa di riprovarlo con 4 o 5 anni di bottiglia sulle spalle).

Proseguiamo con un altro vino degno di nota, il Torrette Superiour – composto al 75% da Petit Rouge. Un vino leggiadro, elegante, dove note balsamiche si fondono a sentori di marasca sotto spirito e accenni speziati.

Segue il Fumin, più corposo ed energico, con sentori di frutta a bacca scura, note affumicate e un retrolfattivo di funghi e mirto. I sentori affumicati – ci viene spiegato – sono imputabili alla presenza di pruina sulla buccia del Fumin, utile a proteggere dal freddo l’acino, e si sviluppano grazie ai 10 giorni di fermentazione a contatto con le bucce.

Per tirare le somme, è sempre molto interessante visitare grandi realtà – specialmente quando si è abituati a confrontarsi con aziende di dimensioni molto più ridotte – per capire cosa si perde e cosa si guadagna nel passaggio da piccola impresa ad azienda strutturata.

Si perde necessariamente un pezzetto per strada – che sia la mano artigiana, o la cosiddetta caratteristica familiare – ma se ne guadagnano altri, come in questo caso la spinta verticale e l’occhio puntato all’estero per far conoscere il vino valdostano nel mondo. È proprio il caso di dirlo: ad maiora.

Elisabetta, la Donna nella Valle: Vintage Vini

Cosa ci fa una ragazza di origine sarda in Valle d’Aosta? Il vino, con tutte le premesse per avere davanti a sé un futuro radioso e dorato – esattamente come il proprio cavallo di battaglia in bottiglia; ma andiamo per ordine.

Elisabetta Sedda ci accoglie nel proprio giardino e dopo i consueti convenevoli ci carica su una Land Rover; destinazione Chambave, per andare a visitare i vigneti. Il tono della conversazione è da subito informale, parliamo e ascoltiamo Elisabetta con lo stesso agio con cui potremmo ascoltare un’amica di vecchia data.

Ci racconta com’è nata questa impresa (a tutti gli effetti) solo pochi anni prima, nel 2014, a partire da una passione profonda per il vino e il diploma da sommelier; Elisabetta è a tutti gli effetti un’autodidatta spinta dal desiderio di recuperare vigneti molto vecchi (alcuni addirittura di 50-80 anni) in stato di abbandono, per salvarli e donare loro una seconda vita.

La passione che trasuda dal racconto di Elisabetta è difficilmente trasmissibile a parole, che non siano le sue: perché ci racconta di un sogno, ma non uno qualunque, il suo; delle battaglie quotidiane con un clima e un terreno sfidanti, delle difficoltà legate al fatto di essere donna, a capo di un’azienda vinicola, con cognome sardo in Valle d’Aosta.

Gli alberelli di Muscat

I vitigni lavorati da Elisabetta (e dal fratello con cui porta avanti l’azienda) non sono di sua proprietà, eccetto uno recentemente acquistato: sono sparsi prevalentemente in Chambave e secondariamente nella zona di Morgex.

Ci spiega che in linea generale il terreno di Chambave, sabbioso, dona vini con buona dose di potenza; mentre da Morgex, con terreno calcareo-argilloso, ottiene vini tendenzialmente più esili ed eleganti.

Ammiriamo il puzzle scomposto di appezzamenti di terra – che deve lavorare quasi sempre con modalità concordate insieme ai proprietari (!) – dai quali riesce a ricavare 5000 bottiglie l’anno, per la produzione di circa 10 etichette, quasi tutte monovitigno, che vengono rilasciate ogni 3/4 mesi.

Grappoli di Barbera

Concluso il giro dei vigneti, ci dirigiamo verso la cantina con una curiosità spropositata per i vini che abbiamo solo potuto immaginare fino a questo momento.

Elisabetta ci fa strada in cantina, mostrandoci le aree di imbottigliamento e affinamento; peculiare l’utilizzo di vasche in granito sardo (omaggio delle origini) e l’utilizzo esclusivo di botti esauste – in netto contrasto con quanto visto da Grosjean.

Ci accomodiamo nella magica, intima barricaia e, tra un tocco di formaggio e un’oliva, facciamo la conoscenza delle bottiglie di Elisabetta.

Iniziamo con un blend particolarissimo, con uve provenienti esclusivamente da vigne vecchie: Barbera, Dolcetto, Petit Rouge e Ciliegiolo danzano insieme per il vino “Vigne Vintage” il vielles vignes nostrano. Un perfetto vino da merenda con gradazione alcolica al 10%: rustico, acidulo, omaggio e rimedio, beverino e spensierato, alla calura estiva.

Proseguiamo con un altro vino a cuor leggero, un Grignolino – dalle vigne del nonno – che si distingue dai propri fratelli poiché è l’unico per cui non viene messa in atto la fermentazione con misto di grappolo intero e diraspato (50-50). Essenziale a sua volta, ma più fruttato e meno acido del Vigne Vintage che abbiamo appena degustato.

Proseguiamo con una “chicca” – anche questa nata più seguendo il cuore che i libri di enologia – ovvero il “Domus de Janas”, prodotto con l’uva delle vigne di famiglia, in Sardegna: Cannonau, Carignan e Monica prendono il traghetto e in un viaggio lungo una notte o poco più arrivano per fermentare e farsi 16 mesi in botte in Valle d’Aosta.

Un vino che è manifesto e sintesi dell’opera eroica di Elisabetta: il recupero, la salvaguardia, la cura.

Chiudiamo con un vino che difficilmente uscirà dai miei radar e sicuramente rimarrà impresso nella mia mente: il Cornalin. Un vitigno autoctono difficile, che ha bisogno di estrema cura in vigna e che ha una resa un po’ imprevedibile in bottiglia; la 2020 di Elisabetta ha fatto 14 mesi in barrique e qualche mese in acciaio per un risultato strabiliante.

C’è tutto: profondità, un’esile complessità, la freschezza, l’allungo sul finale. Il frutto che cede il posto ora a una nota balsamica, ora a un accenno di cacao e spezie.

E poi, mentre stavamo per andarcene, la sorpresa.

Elisabetta si avvicina alla botte contenente il liquido che diverrà il suo già celeberrimo (e in questa sede vorrei ricordare che Elisabetta come vignaiola è nata nel 2014) Tacsum: il Muscat di Chambave. Un vino che è luce, agli occhi e al palato.

Fermentazione sulle bucce di circa dieci giorni, un passaggio in legno e uno in vasca di granito sardo ed è magia: questo davvero non lo posso descrivere, lo dovrete assaggiare.

Io tutta questa luce me la porterò dentro: quella del Tacsum, degli occhi di Elisabetta, dell’intima barricaia che ha fatto da sfondo a questa esperienza quasi mistica.

Con la convinzione che in Valle si fanno vini come in nessun’altra parte del mondo.

Articoli correlati

Risposte

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *