Cartoline elbane – Decantico

Cartoline elbane

Ruvidezza e velluto

L’Isola d’Elba ha due anime, separate da una fitta, rigogliosa vegetazione e collegate da stradine che alternano un continuo sali e scendi con spettacolari tornanti a strapiombo sul mare; sicuramente, se mandare cartoline fosse ancora in auge nel nostro mondo ormai prettamente digitale, sceglierei proprio una foto con veduta aerea del mare cristallino, del verde scuro e brillante, delle strade che serpenteggiano seguendo i lineamenti frastagliati della costa.

Queste due anime si scontrano per estetica e modus vivendi, contrapponendo velluto e ruvidezza, prosa e poesia, affollamento e isolamento; prendiamo la spiaggia di Cavoli e la spiaggia di Sant’Andrea come i due estremi, i due poli opposti di queste anime.

Cavoli, sulla costa sud ovest, ci accoglie con una splendida spiaggia sabbiosa, dalla consistenza fine e peculiare, un’acqua da sogno e un concentramento di turisti che ha dell’incredibile – forse il Covid ha peggiorato la nostra soglia di tolleranza – e un conseguente numero pressoché illimitato di servizi, quasi sempre pieni stracolmi.

Speculare, sulla costa nord-ovest, troviamo la Spiaggia di Sant’Andrea e le sue caratteristiche “Cote Piane”: enormi massi granitici, percorribili ed esplorabili solo mediante l’utilizzo di ciabatte o, meglio ancora, scarpini da scoglio, con un’acqua egualmente meravigliosa, ma spazio a sufficienza per respirare e non sentire il fiato altrui sul proprio collo. I servizi non mancano, ma riusciamo a pranzare o cenare anche senza aver prenotato due giorni prima.

Il paradosso di Arrighi

A pochi km dal marasma di un altro polo situato sulla costa sud-est dell’Isola, Porto Azzurro, troviamo un’oasi di pace, un luogo dove il tempo scorre in maniera diversa, meno erratica e impaziente: scopriamo il paradosso dell’azienda agricola Arrighi, immersa nel caos del turismo di massa ma calata nella propria dimensione individuale di assoluta calma e tranquillità.

Non facciamo in tempo a scendere dalla macchina che Antonio, il proprietario, ci carica sul proprio quad per un giro della proprietà, che conta circa 15 ettari per una produzione di 40.000 bottiglie; mentre ci arrampichiamo sui terrazzamenti Antonio ci parla di un terreno principalmente ferroso-argilloso, composto da una grande varietà di minerali e rocce: ematite, caolino, magnesite, pirite, solo per citarne alcuni.

Proseguendo, Antonio menziona le difficoltà sempre maggiori nell’evitare alle piante lo stress idrico, l’emergenza della siccità, indicando le parti di vigna più rigogliosa – dal colore verde scuro brillante – e quelle più sofferenti – dal colore verde più chiaro.

Dal nostro peculiare e avventuroso mezzo di locomozione vediamo scorrere davanti a noi diversi varietali, autoctoni e internazionali: Procanico, Biancone, Ansonica, Viognier, Chardonnay, Manzoni Bianco, Vermentino, Syrah, Sangiovese, Sagrantino (!) e, ovviamente, Aleatico.

Scopriamo con sorpresa che l’azienda, a partire dagli anni ‘90, ha portato avanti varie sperimentazioni con il Centro di Ricerca per la Viticoltura di Arezzo, impiantando varietali alloctoni inusuali per il luogo, dal Pinot Nero, al Nebbiolo, al Sagrantino. Quest’ultimo si dimostrò molto adatto al clima e alle caratteristiche morfologiche dell’Isola e trovò la propria collocazione insieme a Sangiovese e Syrah nel “Tresse”, vino rosso di punta dell’azienda.

La folgorazione dell’affinamento in anfora

Ci aspettavamo almeno un accenno alle sperimentazioni con Attilio Scienza, da cui è nato il famoso “vino marino”, ma Antonio ha lasciato cadere nel nulla le domande in merito.

In compagnia di Giulia, figlia di Antonio ed enologa dell’azienda, abbiamo degustato sei vini: tre bianchi, un rosato, un rosso e un rosso passito – il leitmotiv è stata la scelta di far affinare molti dei vini prodotti in anfore di terracotta di Impruneta.

Partiamo con Valerius, un’Ansonica prodotta in anfora, con macerazione sulle bucce: vino complesso, sapido e al contempo morbido, al naso delinea un profilo olfattivo caratterizzato da frutta matura, con una nota mandorlata. Tramite questo primo assaggio capiamo a pieno l’intuizione di Antonio nello scegliere la terracotta come materiale di affinamento, ideale per consentire al vino di evolvere senza essere influenzato da un contenitore che potesse cedere sostanze.

Segue un interessantissimo assaggio ancor più illuminante, in cui vediamo contrapposte due bottiglie a base Viognier, maturate l’una in anfora, l’altra in barrique da 300 litri: da una parte abbiamo Hermia (Viognier in anfora), vino decisamente per “bocchisti”, dal profilo aromatico non molto evoluto e nemmeno nitido (sentori fruttati diffusi, con lievissimi accenni floreali) ma con grandissimo equilibrio gustativo (sicuramente meno complesso dell’Ansonica in anfora), una bella spalla acida e un sorso goloso di frutta tropicale con finale dai richiami di salvia e rosmarino.

Il Viognier VIP (in barrique) è invece un vino da “manuale”, tanto perfetto quanto prevedibile: in bocca è preciso, dettagliato, di medio corpo, un sorso in cui morbidezza e durezza si controbilanciano senza sforzo. Il profilo aromatico evidenzia sentori di pesca e albicocca matura accompagnati da un’inevitabile, tipica punta di vaniglia.

Le due bottiglie a confronto sono perfette per far toccare con mano e comprendere – anche ai meno eruditi in materia – i lineamenti nettamente diversi che possono derivare da un affinamento piuttosto che un altro. 

Traspare inoltre chiaramente che gli sforzi sperimentali hanno dato la possibilità all’azienda di spaziare, identificare i vigneti più adatti al territorio (penso soprattutto al Viognier, che ben ha sposato il clima siccitoso, o la scommessa vinta col Sagrantino) e offrire un ventaglio di prodotti molto diversi tra loro, ma dotati di una propria identità e riconoscibili nella loro essenza.

A seguire abbiamo degustato il rosato Isola in Rosa (100% Syrah): fruttato di fragole e frutti di bosco, con un lieve accenno pepato, leggiadro e beverino — sicuramente il vino più diretto e semplice.

Avviandoci verso il termine della degustazione, abbiamo avuto modo di assaggiare quella che ho considerato la “punta di diamante” della batteria: il Tresse, prodotto a partire da uve Sangiovese, Syrah e Sagrantino, maturato in anfora. Un vino dal profilo ben delineato, strutturato – con un potenziale di invecchiamento assolutamente interessante. Al naso aromi di amarena, lampone, fragola si contrappongono a un sorso che evidenzia invece sentori terziari di pelle e spezie: il tannino è presente ma non ingombrante, levigato ed elegante, accompagnato da un’acidità filamentosa: la sintesi perfetta dei tre vitigni che lo compongono.

Infine, letteralmente dulcis in fundo, abbiamo provato il Silosò, Aleatico passito DOCG – unica DOCG dell’isola – un gioiellino: dolce al punto giusto, viscoso, mai stucchevole, dall’aroma inconfondibile di confettura, con accenni balsamici e un ritorno salaticcio, quasi a voler indicare il mare che si intravede dai terrazzamenti oltre le colline.

Come nota a margine, Giulia ci ha raccontato di star sperimentando un Metodo Classico a base Chardonnay e Manzoni Bianco (che avremmo degustato molto volentieri, se fosse stato pronto); per consolarci abbiamo acquistato una bottiglia di In Bolla, vino rifermentato in bottiglia, prodotto con le medesime uve del futuro Metodo Classico.

Brioso, leggero, appagante, dai sentori nitidi di mela e pera, proprio quello che mi sarei aspettata da un rifermentato in bottiglia di questo tipo – che, tra le altre cose, si è dimostrato molto gastronomico, comportandosi divinamente al cospetto del formaggio caprino del quale abbiamo decisamente abusato nella nostra settimana elbana: ma questa è decisamente un’altra storia, dovremo inviare una cartolina a parte.

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