A caccia di funghi – Decantico

A caccia di funghi

Il Brettanomyces e il suo legame con il vino.

Quando si parla di vino di solito si fa sempre riferimento al Saccharomyces cerevisiae, implicato nel processo fermentativo. Dal latino, fungo dello zucchero, il suo processo metabolico prevede appunto il ‘consumo’ di zucchero e il rilascio di biossido di carbonio ed etanolo, in pratica per intenderci, produzione di alcol e dell’effetto tumultuoso del bollore del mosto. La sua vita tende al tramonto quando le concentrazioni glucosidiche diminuiscono e si innalzano quelle dell’etanolo.

Ma il magico mondo dei funghi (attenzione non dei funghi magici) è ampio, e tra quelli funzionali troviamo anche quelli che proprio bene non fanno, almeno per il vino.

Quello di cui sto per parlarvi, infatti, è un fungo appartenente alla famiglia dei Brettanomyces.

Brettanomyces
Saccharomyces 

Che cos’è e come funziona

Dal latino ‘fungo britannico’, il Brettanomyces venne scoperto nei primi del ‘900 da N. Hjelte Claussen mentre era intento ad effettuare studi sulle birre ale nel laboratorio Carlsberg.

Secondo classificazione, appartiene alla famiglia delle Pichiacea e comprende cinque specie differenti. Di queste, solo le forme B. anomalus e B. bruxellensis appartengono a quelle infestanti più aggressive, poiché la sua moltiplicazione avviene grazie al rilascio delle spore, una fase dello sviluppo del fungo che in questo stadio è capace di disperdersi facilmente nell’ambiente e di sopravvivere in condizioni ambientali avverse, anche se poi l’organismo che ne deriva non è poi così vigoroso.

Il Brettanomyces, per gli amici semplicemente Brett, si nutre come il Saccharomyces di zuccheri convertendoli in alcol e anidride carbonica ma, per contro, producendo fenoli volatili, acidi grassi, acido acetico che non riportano, proprio, a sensazioni piacevoli nel vino.

Il Brett, a differenza del suo cugino più stretto, ha anche altre caratteristiche che gli omaggiano il riconoscimento di ‘Die Hard’. Oltre a nutrirsi di zuccheri semplici, non disprezza substrati come etanolo, acidi e aminoacidi che gli dona la capacità di essere presente in quella che è, nel nostro caso, la filiera enologica.

Essendo una piccola creatura microscopica e versatile, il Brett può prosperare praticamente ovunque; sul frutto, nel terreno, nel mosto, nell’ambiente di cantina arrivando a insinuarsi persino nei microscopici pori del legno delle botti.

Perché ‘puzza’?

In realtà non è sempre così.

I processi metabolici del Brett, come abbiamo visto, portano allo sviluppo di composti aromatici che essenzialmente sono il 4-Etilfenolo (4-EP) e il 4-Etilguaiacolo (4-EG).

E mentre il 4-EG potrebbe essere valutato positivamente perché porta a sensazioni come chiodi di garofano, spezie e affumicatura, quindi piacevoli; il 4-EP è quello che fa dannare i viticoltori. Come risultante organolettica di questa molecola troviamo, infatti, sensazioni olfattive come cerotto, aia, stalla, pelo bagnato e antisettico.

Anche se con un linguaggio forse troppo tecnico ma che era doveroso fare, detto ciò, l’attenzione adesso non può che cadere sull’intensità dell’aroma e di conseguenza sulla differente soglia di percezione che è variabile da individuo a individuo.

Si stima infatti che la maggior parte delle persone inizi a descrivere un vino Brett o Bretty quando il livello di 4-EP raggiunge tra i 300 e i 600 microgrammi per litro e il 4-EG raggiunge circa i 50 microgrammi per litro.

Quello che tutti i nutrizionisti dicono sulla nostra alimentazione, che noi siamo quello che mangiamo, è un concetto che può essere traslato alla vita del Brettanomyces.

Diversi studi, infatti, hanno portato a comprendere che non è semplicemente una questione di uva o di vino, anche se predilige i rossi per il tempo di stasi nelle botti, o dei tempi di vinificazione; la questione, è un po’ più complessa e gira sul tipo di molecola o substrato di cui si è nutrito il fungo, che può variare, con stessa uva e stesso procedimento di vinificazione, anche da annata ad annata.

La complicata espressione del Brett porta ad una certosina ricerca su come evitare il difetto organolettico nel vino.

Prevenzione e cura

Ai tempi d’oggi si è a conoscenza di quelle che sono le basilari regole igienico-sanitaria che non cambiano di molto anche nel mondo del vino e del Brett. Come dicevo qualche riga sopra, la proliferazione di questo fungo parte dalla vigna e arriva in cantina; quindi, è importante partire da un’attenta conduzione agronomica fino a mantenere tutto l’ambiente di produzione il più disinfettato possibile. 

Ma come si risolve il problema all’interno di un liquido?

Il controllo sulla concentrazione del Brett nel vino si verifica nelle ultime fasi di produzione, quando vengo effettuati, appunto, filtraggi e sterilizzazioni.

Per capire come effettuare al meglio questi passaggi vengono svolti degli esami chimici che leggono la concentrazione del fungo nel vino.

Mentre il filtraggio è un processo fisico-meccanico che prevede il passaggio del vino attraverso membrane a fori sempre più stretti, la sterilizzazione è un processo chimico.

Solitamente sono due le azioni che permettono di controllare il proliferare del Brett: con il biossido di zolfo (usato anche per disinfettare le pareti interne delle botti), con il dimetildicarbonato unitamente ad anidride solforosa.

In entrambi i casi, i processi eliminano tutte le impurità ma in questo caso l’obiettivo è più ampio poiché non solo si devono eliminare i microorganismi ma anche gli elementi volatili sgradevoli che si sono potuti formare durante la fermentazione.

Ovviamente è buona norma il continuo e scrupoloso monitoraggio nelle fasi produttive, poiché anche una volta imbottigliato e pronto per l’affinamento, il vino non è libero da una possibile riformazione di spore, che se sottovalutata si rischia di perdere l’intera partita.

Ad oggi, la comprensione circa il ruolo del Brettanomyces nel processo di vinificazione può dirsi completa, tuttavia le conoscenze scientifiche non hanno ancora consentito di far pienamente fronte al problema della sua presenza e proliferazione nel vino, anzi è possibile che il cambiamento climatico e l’innalzamento delle temperature stia influenzando la composizione dei mosti, facilitando lo sviluppo di una maggiore flora microbica.

Brett si, Brett no

De gustibus non disputandum est. Il famoso odore di Brett è una disquisizione tra gli esperti che va avanti da anni, quando nella storica Bordeaux che il vino sapesse di sella di cavallo era quasi un vanto. Allo stesso modo potremmo parlare dei vini biodinamici-naturali che per essere riconosciuto tale ‘addà puzzà’. 

Ora, non vorrei prendere le parti di nessuno, ma dato che la tecnologia ci viene incontro e non ci troviamo più nelle cave francesi del 1700, dare innanzitutto importanza alla salubrità di un prodotto dovrebbe essere legge indiscutibile.

Sia chiaro la grandezza di un vino deriva anche dall’ampiezza del suo bouquet che alcune volte porta a sensazioni estreme (aromi di smalto o etere per fare un esempio), ma se non dovesse possedere delle braccia forti per reggerlo, della sua grandezza rimarrebbe poco.

Prosit

Stefania Rocca

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